Sardegna/8. Disabilità, informazione e caregiver
LANUSEI – Una riflessione sulla cultura della disabilità e sul linguaggio utilizzato per raccontare le vicende che coinvolgono persone con disabilità, e una serie di testimonianze dirette di famiglie che hanno vissuto o vivono questa condizione, per comprendere meglio i vissuti personali e trarre consapevolezza e insegnamenti per poter raccontare al meglio i fatti che li riguardano. Questo è stato il corso di formazione per giornalisti “La disabilità è un valore. Informazione e caregiver”, ottava tappa del percorso biennale voluto da Ordine dei Giornalisti della Sardegna e Caritas Sardegna, insieme a Ucsi Sardegna, con la collaborazione di Redattore Sociale.
Il corso, tenutosi a Lanusei lo scorso 23 maggio 2024, è stato introdotto da Francesco Birocchi, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna, che ha ricordato come sia in corso una rivisitazione del Codice deontologico per meglio illustrare le esigenze di una corretta informazione riferita a una pluralità di soggetti, fra i quali anche le persone con disabilità: “Noi giornalisti – ha detto - lavoriamo con le parole e ciò che diciamo influenza anche il modo di pensare e di agire delle persone, il rapportarsi con gli altri: dobbiamo liberarci certamente dai pregiudizi, ma anche dai luoghi comuni, prendendo coscienza della necessità di usare un linguaggio rispettoso e ascoltando le persone direttamente interessate”. Dopo i saluti di Maria Chiara Cugusi, referente comunicazione Caritas Sardegna, di Andrea Pala, presidente UCSI Sardegna e di Roberto Comparetti, delegato regionale FISC (Federazione italiana settimanali cattolici), un primo quadro d’insieme è stato fornito da Stefano Caredda, direttore di Redattore Sociale.
Una cultura della disabilità: suggerimenti e quadro generale
“Il dato di partenza critico – ha affermato - è che storicamente il modo in cui i giornalisti raccontano le persone con disabilità ha nel tempo contribuito non poco ad una percezione errata della loro realtà esistenziale. Si è poi sviluppata negli ultimi decenni un’attenzione specifica al tema del linguaggio applicato alla disabilità”. A partire dai riferimenti all’attuale Codice deontologico, è stata così messa in evidenza l’evoluzione scientifica e linguistica degli ultimi decenni, la differenza tra disabilità e malattia e in termini generali il passaggio da una cultura dell’handicap a una cultura della disabilità. Il tutto conseguenza diretta delle evoluzioni normative che hanno portato alla stesura della Classificazione ICF da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità e alla firma e ratifica della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità: “Passaggi storici che ci hanno introdotto ad un approccio bio-psico-sociale alla disabilità”.
Dentro questo ambito la persona con disabilità è quella che presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri: “Superato cioè un approccio esclusivamente medico – sanitario, siamo giunti ad un approccio che giudica la disabilità in rapporto a quello che è l'ambiente circostante e il contesto nel quale la singola persona si trova ad operare”.
Per il giornalista, è stato rimarcato, l‘ideale è mantenere un atteggiamento neutro, cioè non esaltante e non avvilente della persona in funzione della sua disabilità. È infatti sbagliato concentrarsi sulla disabilità benché, se questa condizione è fattore saliente per il contenuto di una notizia, sia corretto parlarne esaurientemente. La Guida “Comunicare la disabilità”, pubblicata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, fornisce al riguardo importanti suggerimenti pratici per affrontare nel concreto il racconto dei fatti che riguardano persone con disabilità.
La relazione introduttiva ha ricordato anche il recente Decreto Legislativo (n° 62 del 3 maggio 2024, attuativo della Legge Delega sulla disabilità) che ha disposto – fra le tante norme – anche un’importante rivisitazione lessicale di tutta la legislazione italiana, stabilendo che ovunque ricorrano le parole «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», esse debbano essere sostituite da “persona con disabilità“. Al tempo è stato prescritto che «handicap» debba variare in “condizione di disabilità“.
Infine, riguardo alla situazione del caregiver familiare, cioè della persona che assiste e si prende cura del coniuge o di un familiare non autosufficiente e riconosciuto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata, è stato segnalato come si tratti, secondo le stime disponibili, di una realtà assai diffusa, seppur ovviamente caratterizzata da diversa intensità: nell’accezione più ampia, ben 7 milioni di persone hanno fornito cure ed assistenza almeno una volta alla settimana a membri della propria famiglia. La gran parte dei caregiver familiari sono donne di età compresa tra i 45 e i 55 anni, oltre la metà delle quali sono state costrette ad abbandonare il lavoro per potersi dedicare a tempo pieno alla cura dei familiari. Molto sentito è, di conseguenza, il tema del riconoscimento giuridico di questa figura, sia a carattere nazionale sia a carattere regionale (in Sardegna la legge 12/2023).
“Nel mondo di Giò”: la musica e una grande famiglia allargata intorno a Giovanni
A raccontare l’esperienza di Giovanni sono state Paola e Stefania Mulas, rispettivamente mamma e zia di un giovane ventenne che ha subito una sofferenza fetale nel corso del parto che ha causato una tetraparesi spastica con una grave compromissione dell’attività motoria e della comunicazione verbale.
Le due donne hanno raccontato il fortissimo impatto che questa condizione ha causato a livello familiare, la ricerca di un supporto adeguato a livello medico, il tentativo (riuscito) di creare intorno al bambino e poi al ragazzo un contesto di vera inclusione sociale, mettendo in rete tutto ciò che il territorio potesse offrire, a partire dalla sua famiglia numerosa: “Il padre musicista ha trasmesso la consapevolezza del grande potere della musica, e tramite incontri musicali pomeridiani abbiamo dato a Giovanni l’occasione, che lui ha colto, di sviluppare il senso del ritmo, di usare strumenti a percussione, di suonare anche, nel corso degli anni, con altri bambini e ragazzi”. L’utilizzo di ausili informatici gli permettono di studiare in autonomia: “Giovanni ha fatto un percorso scolastico eccellente, è un grande amante della lettura e della scrittura e sogna un futuro nel giornalismo, ora frequenta la triennale di Scienze della Comunicazione”.
L’Associazione “Mondo di Giò”, creata proprio a partire dall’esperienza di Giovanni, utilizza la musica come strumento di unione: bambini e ragazzi imparano a suonare lo strumento, a cantare, ad aiutarsi l’un l’altro, mettendo insieme tanti bambini e tante famiglie con e senza una disabilità. “La musica – ha scritto lo stesso Giovanni, in un messaggio letto dalla zia - è un dono per tutti ed è presente nella vita di tutti noi in ogni momento: alla mia nascita i miei genitori mi hanno regalato questo mondo e con esso mi hanno donato la forza che mi permette di vivere in armonia con tutto e tutti. Questo mondo è una grande famiglia: io ho tante madri oltre la mia, ho tanti padri oltre il mio, ho tanti fratelli e sorelle oltre la mia, tante zie oltre le mie e tanti piccoli cugini, e questa famiglia è la mia ragione di vita. Ogni giorno quando mi sveglio penso a quanto sono fortunato ad averle al mio fianco, nonostante tutto. Sono la mia voce, le mie mani, le mie gambe, ma soprattutto sono la luce che illumina la mia vita. Io sono loro e loro sono me, un unico cuore”. E questo è il mondo di Giò.
L’autismo, il lungo percorso verso l’equilibrio familiare
Dell’esperienza dei caregiver familiari ha parlato Barbara Prestifilippo, referente dell'associazione Piccolo Principe. Mamma di Nicola, un bimbo di 11 anni con una forma di autismo, un disturbo pervasivo della crescita, ha raccontato il lungo percorso compiuto verso una maggiore consapevolezza: “All’inizio ce l’hanno presentata come una malattia e abbiamo girato gli ospedali cercando di guarirla. Poi siamo arrivati ad una prima diagnosi neuropsichiatrica, e insieme ci è stata data, a me e a mio marito, l’indicazione di spostarci dall’Ogliastra a Cagliari e (per uno dei due) di lasciare il lavoro. Di getto ho pensato fosse una pazzia, invece aveva ragione, sarebbe stato impossibile crescere nostro figlio continuando entrambi a lavorare”. Non che non ci abbiano provato, ha raccontato la donna, tentando anche di sfruttare le ore notturne per lavorare, ma una routine quotidiana fatta di ore e ore di terapie comportamentali, di impegni pressanti, di un bambino che aveva esigenze specifiche importanti, hanno portato infine alla decisione di lasciare il lavoro (nel caso specifico, quello del papà di Nicola). “Abbiamo fatto il grande passo, e una volta che mio figlio e mio marito hanno raggiunto un loro equilibrio la cosa ha iniziato a funzionare. Fra tante altre difficoltà, abbiamo trovato il nostro modo di vivere”.
L’Associazione “Piccolo principe” – della quale Prestifilippo è referente - supporta le famiglie di bambini con autismo, permettendo il confronto fra i genitori e dando ai bambini, arrivati all’età di 8-12 anni, l’occasione di iniziare a rapportarsi con il gruppo dei coetanei, in modo da sviluppare la socialità e superare le paure. Con un occhio al futuro, perché è importante dare a questi ragazzi un posto nel mondo, dove possano lavorare e sentirsi realizzati, utili a sé e agli altri”.
Essere caregiver senza più lavoro e amicizie: “Un grande carico emotivo”
Da Antonella e Anna Rita Deiana, dell'associazione “La Soffitta di Peo”, è arrivata una testimonianza incentrata sull’esperienza di Pierpaolo, giovane ragazzo con sclerosi multipla, morto pochi anni fa. La mamma Antonella lo ha descritto come un “ragazzo con una gran voglia di vivere, a cui piaceva la musica, parlare con le persone, stare al centro di tutto, amando la vita e affrontandola sempre con un sorriso”. “Io – ha raccontato – mi sono sentita chiamare caregiver, e ho svolto questo ruolo senza quasi saperlo: ho lasciato il lavoro, le amicizie, e sono stata a casa sempre con lui, con un pieno di carica emotiva sempre più pesante accumulato negli anni”. “Non ho mai avuto modo di confrontarmi con nessuno, parlare con qualcuno per alleggerire il carico che avevo… Ecco perché poi è nata l’associazione”.
“Abbiamo tratto origine – ha aggiunto la sorella Anna Rita – dalla storia di Pierpaolo e Antonella per sensibilizzare tutti sul come approcciarsi alle persone, e per offrire un aiuto alle famiglie che non sanno da dove partire. Vogliamo far comprendere ai caregiver che chiedere aiuto non è segno di debolezza e non è neppure un punto di arrivo, ma un punto di partenza.
“Non il problema ma la soluzione”: la vita con Luca e il peso delle parole
Lisa Ferreli e Rita Concu dell’associazione “Ogliastra InForma” hanno illustrato le attività di una realtà attiva in Ogliastra da quasi venti anni. Un’esperienza che parte dalla vita di Luca, figlio di Rita e ragazzo con autismo. “Decenni fa l’autismo era quasi sconosciuto, io stessa ho dovuto fare i conti con la teoria che parlava della madre frigorifero, cioè di una madre anaffettiva e incapace di sorridere, come mi fu detto con molta schiettezza. Io e mio marito non ci fermammo a questo verdetto, cercammo altre strade, tutto ciò che il sistema sanitario poteva offrirci, e poi un programma riabilitativo che abbiamo seguito in America per dieci anni. Le cose sono cambiate quando ci è stato detto che noi non eravamo il problema di Luca, ma potevamo essere la soluzione. Abbiamo svolto il programma riabilitativo, molto intenso ma ricco di gratificazioni, poi siamo tornati in Ogliastra e abbiamo sentito il bisogno di condividere la nostra esperienza e di ricambiare il volontariato che avevamo ricevuto”. Così è nata Ogliastra InForma, che si occupa di autonomia personale, laboratori per ragazzi, progetti di vita indipendente, e attività sportiva. “Fin da quell’essere chiamata mamma frigorifero ho capito subito il peso delle parole e il dolore che esse possono suscitare, e tante volte articoli di giornale ci hanno fatto male indicandoci come famiglie disagiate”. “Con la stampa – ha aggiunto Lisa Ferreli – abbiamo avuto un rapporto di amore e attrito: è fondamentale che la società conosca e riconosca i diritti delle persone con disabilità”.
L’intervento in ambito sociale: sospendere giudizi e presunzione
Una riflessione sull’intervento in ambito sociale e sull’importanza del fare rete è venuta da Augusta Cabras, presidente della Cooperativa Sociale “Schema Libero”, nonché operatrice della Caritas di Lanusei. “Quando si progetta un intervento di natura sociale – ha detto – l’ascolto è sicuramente il primo passo, per mettere in evidenza tutto il carico positivo di risorse, oltre che le inevitabili difficoltà. Se ci si confronta con un caregiver egli porterà le istanze, i bisogni, le necessità della persona con cui è in relazione di cura, ma porterà anche le sue, perché egli o ella ha una sua vita, delle esigenze e delle potenzialità e delle risorse da mettere in campo. E’ importante mettersi in relazione con tutti i soggetti, e sospendere il nostro pregiudizio, cioè il giudizio sulle scelte che le persone hanno fatto, come anche allontanare la presunzione di sapere già quali risposte dare senza aver prima ascoltato le persone a cui vorremmo dare delle risposte. Per chi lavora nel sociale, è importante far tacere la tentazione di voler salvare il mondo: non ce la possiamo fare, soprattutto se agiamo da soli.