Sbarcati a Napoli gli 87 migranti soccorsi dalla Life Support di Emergency
ROMA – Sono 87 le persone soccorse nel Mediterraneo centrale dalla nave di Emergency Life Support e sbarcate questa mattina nel porto di Napoli. Il soccorso era avvenuto il 3 maggio in zona Sar Libica. Tra le persone soccorse, anche 8 donne e 17 minori di cui 3 non accompagnati.
“Le operazioni di sbarco si sono concluse senza difficoltà. Abbiamo impiegato tre giorni di navigazione per raggiungere il porto assegnato di Napoli – commenta Domenico Pugliese, comandante della Life Support –. La scelta di assegnare un porto lontano espone i naufraghi a ulteriori sofferenze ingiustificate, quando dovrebbero essere fatti sbarcare il prima possibile in un posto sicuro. Ora auguriamo loro un futuro migliore”.
Il gommone era partito dalla città di Zawiya in Libia verso l’1 del mattino del 3 maggio. Dopo diverse ore di navigazione, i naufraghi sono stati avvistati dall’asset aereo Colibrì 2 di Pilotes Volontaires che ha comunicato la loro posizione alla Life Support. La segnalazione era stata confermata anche da Alarm Phone. La nave di Emergency si è diretta alle coordinate ricevute per effettuare il soccorso.
“Il soccorso è stato effettuato in condizioni molto critiche – spiega Maria Rametto, capomissione della Life Support –. L’imbarcazione era sovraffollata, in condizioni precarie e stava imbarcando acqua da ore. I tubolari erano sgonfi. I naufraghi non avevano cibo né acqua. Siamo riusciti a evitare una tragedia. Ora le persone soccorse sono al sicuro a terra”.I racconti dei naufraghi
Le 87 persone soccorse vengono da Sudan, Nigeria, Niger, Sud Sudan, Eritrea, Bangladesh, Mali, Togo, Ghana, Liberia, Chad, Camerun, Senegal e Costa d’Avorio. In alcuni di questi Paesi ci sono guerre, violazioni dei diritti umani, mancanza di libertà politica e gravi problemi di sicurezza alimentare. “Sono dovuto scappare dal Niger perché, dopo che è morto mio padre, i miei vicini di casa mi hanno minacciato dicendomi che se non me ne fossi andato mi avrebbero ucciso – racconta un ragazzo nigeriano di 20 anni –. Volevano il terreno che avevo ereditato. Un giorno mi hanno picchiato finché non ho perso conoscenza; avevo 13 anni e ho capito che dovevo scappare se volevo vivere. Ho passato alcuni anni in Niger e in Chad. Nel 2021 sono arrivato in Libia dove ho fatto il meccanico per tre anni. In tutto questo tempo, sono stato sfruttato. A volte mi costringevano a lavorare sulle auto delle milizie libiche, le stesse persone che tutti i giorni rapivano e torturavano i miei fratelli subsahariani, probabilmente usando quelle stesse auto. Il mio capo libico mi pagava una miseria e si è arricchito grazie a me. Un giorno gli ho detto che io sarei sempre stato quello che lavorava e lui quello che godeva del mio lavoro: ha iniziato a picchiarmi, mi ha messo le mani in bocca e voleva strapparmi le guance. Se avessi risposto con la forza, avrei perso la vita. In Libia funziona così: se hai la pelle scura, non hai nessun diritto e ci vuole poco per essere uccisi. Dopo tre anni in queste condizioni, ho deciso che me ne dovevo andare. Nessuno decide di lasciare il proprio Paese e la propria famiglia e rischiare la propria vita se non è costretto a farlo per colpa delle guerre, della povertà o delle repressioni politiche”.
“Sono partita dal Ghana circa un anno fa insieme a una mia amica. – racconta una ragazza di 25 anni – Il Ghana è un bellissimo Paese ma ha molti problemi da risolvere. Ero stata minacciata da un uomo e avevo paura di restare nella mia città. La mia famiglia era preoccupata, avevano paura che lui mi avrebbe fatto del male. Un’amica mi ha convinta a partire, non so se ce l’avrei fatta da sola. Ce ne siamo andate senza dire niente a nessuno. Non sanno che sono qui adesso, come io non sapevo dove sarei andata dopo aver lasciato il Ghana. Sapevo solo che dovevo attraversare il deserto per lasciare i miei problemi alle spalle. Spero di riuscire ad aiutare la mia amica che è rimasta in Libia. I libici sono persone molto pericolose, soprattutto con le donne, e ho paura per lei.”