Separati alla frontiera: l'odissea di una coppia marocchina di ritorno in Italia
MILANO - Aveva vissuto un'estate particolare: in Marocco aveva sposato l'uomo col quale condivide la vita da più di dieci anni. Ma il ritorno a casa, in Italia, si è bruscamente interrotto all'aeroporto di Malpensa ai primi di settembre. Lì ha scoperto che la questura di Milano aveva respinto la sua domanda di un permesso per lungosoggiornanti, presentata dieci mesi prima. Per A.T., 37 anni, nata in Marocco, in Italia da dieci e residente in una casa popolare di un comune dell'hinterland di Milano dal 2012, al danno si somma la beffa. Se non avesse presentato quella domanda per avere un permesso di soggiorno più lungo, segno della sua stabilità lavorativa e familiare nel Belpaese, probabilmente ora vivrebbe tranquilla nel suo appartamento con i suoi quattro figli (tre avuti nel primo matrimonio, una con il nuovo compagno sposato questa estate). Poteva tenere il permesso di soggiorno ordinario. Risultato: lei ha dovuto riprendere un volo per il Marocco con tre figli, mentre il marito è potuto rientrare in Italia con la figlia più piccola. Contro questa decisione della questura di Milano A.T. e suo marito hanno presentato ricorso al Tribunale, assistiti dall'avvocato Livio Neri. "Non si è tenuto conto che si tratta di una famiglia -spiega il legale-. Si è considerato solo il reddito della signora e le hanno contestato la veridicità della dichiarazione dei redditi allegata alla domanda".
I guai per A.T. hanno origine, infatti, nella prassi illegale di molte imprese di dichiarare in busta paga meno di quanto il lavoratore venga retribuito. A.T. lavora per un'impresa di pulizie e, come viene chiaramente denunciato nel ricorso, "la retribuzione oraria corrispostale dalla citata società è sempre stata di 6,5 euro, per una prestazione lavorativa resa per un numero variabile di ore, pari anche a venti ore ed oltre la settimana. A fronte di tale prestazione, tuttavia, la datrice di lavoro ha sempre versato i contributi in modo discontinuo e consegnato alla dipendente buste paga per importi inferiori a quelli effettivamente corrisposti". Nel 2016 l'impresa consegna alla signora un Cud in cui risulta che il suo reddito è stato di solo 4mila euro. "La ricorrente è andata a lamentarsi con la direzione del personale, che le ha dopo alcune settimane consegnato un modello Cud rivisto". Ed è proprio quel modello che, alcuni mesi dopo, A.T. allega alla domanda per ottenere un permesso per lungosoggiornanti. La questura che fa? Controlla il Cud e scopre che non è corrispondente a quanto effettivamente versato dall'impresa in termini di contributi, irpef ecc. Risultato: respinge la domanda. Resta da chiedersi perché invece non si decida di perseguire il datore di lavoro.
La questura di Milano, comunque, di fronte al caso della signora A.T. avrebbe dovuto valutare anche altri fattori. Come prevedono gli articolo 4 e 5 del decreto legislativo 268 del 1998, in base ai quali il questore "nell'adottare il provvedimento di rifiuto" deve tenere conto "anche della natura e della effettività dei vincoli familiari (…), della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale…". E il ricorso di A.T. si basa proprio su questo aspetto: "risiede ormai da quasi dieci anni sul territorio nazionale - scrive l'avvocato Livio Neri -; l’intero nucleo famigliare risiede stabilmente e regolarmente in Italia, ove i due coniugi dispongono di regolare alloggio e di occupazioni lavorative grazie alle quali (nonostante la crisi economica e la parziale irregolarità dei rapporti di lavoro che vengono loro offerti) riescono da anni a mantenere sé ed i propri figli". Inoltre i figli frequentano le scuole regolarmente. "La signora ha tutto il diritto di ottenere un permesso di soggiorno per motivi famigliari -commenta l'avvocato-. Il problema in questi casi nasce dalla rigidità con cui la questura fa gli accertamenti: non ci si può fermare solo al reddito". (dp)