Studenti diventano volontari per stare accanto ai bambini stranieri malati
ROMA – Non 'è solo l'associazione che entra nella scuola, ma anche la scuola che va in associazione: e così gli studenti diventano volontari. Sono tante le iniziative sociali in cui gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado si sperimentano, mettendo a disposizione il proprio tempo per imparare a rendersi utile. Tantissime le associazioni che, di anno in anno, rinnovano il proprio rapporto con le scuole delle rispettive regioni, tramite i Centri di servizio, per incontrare i ragazzi, cooperare alla loro formazione e offrire la possibilità di un'esperienza concreta. Sfogliando il ricchissimo catalogo “Scuola e volontariato” dei Csv del Lazio, per esempio, si incontrano centinaia di iniziative, tra le quali docenti e consigli possono scegliere.
Tra questi, c'è quella proposta dall'associazione Kim di Roma, che da 20 è impegnata nell'accoglienza e il sostegno a bambini con gravi malattie, provenienti da paesi poveri o in guerra, in cui non avrebbero la possibilità di curarsi. “Ci arrivano richieste di aiuto nei modi più disparati – ci spiega Salvatore Rimmaudo, coordinatore volontari e formatore dell'associazione -: da missionari, militari, ambasciate, Ong, Caritas ecc, che ci segnalano casi di bambini che nei loro paesi non possono essere curati. Noi facciamo da mediatori con gli ospedali italiani e offriamo la nostra casa di accoglienza al bambino e a uno dei genitori durante tutto il periodo delle cure mediche, garantendo assistenza e accudimento”.
E' proprio in quest'attività che Kim ha pensato di coinvolgere gli studenti. “Da anni mettiamo al centro della nostra attività il tema della formazione, rivolta sia ai nostri volontari sia agli studenti universitari tirocinanti, con l'intento di fornire non solo strumenti operativi, ma anche identità e buone idee. Da due anni, abbiamo reso parte al programma del Cesv con le scuole, coinvolgendo gli studenti delle superiori”.
Come si svolge questo percorso? “Piccoli gruppi di studenti svolgono in associazioni un programma di circa 15 ore, suddivide in 5 incontri settimanali da 3 ore ciascuno. Il primo incontro è di carattere informativo e ha lo scopo di tirar fuori anche domande, paure e aspettative dei ragazzi, mentre l'ultimo è dedicato al rebriefing, ossia alla rilettura dell'esperienza fatta. Negli altri incontri, sempre accompagnati da me come tutor, supervisionati e monitorati, i ragazzi entrano nella casa famiglia, per stare accanto ai bambini e svolgere con loro attività di animazione”. I ragazzi entrano così in contatto con la malattia e la sofferenza: “anche se i ragazzi più gravi non si trovano in casa famiglia, ma in ospedale, accade comunque che i ragazzi incontrino situazioni molto serie. Penso a una bambina di Damasco, in questo momento ospite della casa, che nei bombardamenti ha persone due gambe”.
Per evitare che questi incontri siano traumatici e difficili da gestire dal punto di vista emotivo, “è fondamentale la costante supervisione, che ci permette di intervenire ogni volta che vediamo una difficoltà. E consente ai ragazzi di tirar fuori domande e problemi non appena sorgono. In questo modo, l'esperienza non è traumatica, nella misura in cui i ragazzi sono accompagnati a leggere la situazione. Se arrivano preparati, riescono a leggere anche il dolore in modo positivo e ad approcciare casi come questo della ragazza siriana serenamente”.
Se con i bambini, gli studenti giocano e fanno attività, “dalle mamme ascoltano i racconti e le storie dei viaggi, delle difficoltà incontrate, dell'arrivo in Italia. E riescono così a cogliere anche l'importanza di trovare realtà accoglienti in Italia. E' così che, in qualche modo, il cerchio si chiude e l'attività assume un senso più ampio, che va oltre la mera esperienza. “Diventa un percorso di formazione della coscienza: lo dimostra il fatto che, l'ultimo anno, due delle studentesse coinvolte ci hanno chiesto, una volta concluso il progetto, di diventare volontarie dell'associazione. E questo, personale, mi ha emozionato molto”. (cl)