Terzo settore, importare la Charity commission? “Meglio la vecchia Agenzia”
MILANO - “C'è un'abitudine tutta italiana di creare strumenti senza che sia chiaro l'ambito in cui intervengono”. Ecco il rischio che, secondo il docente della Statale di Milano Lorenzo Bandera, correrebbe una eventuale authority per il terzo settore se fosse fatta sul modello della britannica Charity commission, così come auspica il Forum del terzo settore commentando le linee guida di riforma pubblicate ieri dal premier Renzi. Un organismo che riprenda quell’esempio, aveva scritto il portavoce Pietro Barbieri, “aiuterebbe a semplificare un quadro normativo piuttosto complesso mantenendo saldi i principi democratici e partecipativi caratteristici del modello italiano”.
Secondo Bandera - ricercatore di “Percorsi di Secondo welfare” e conoscitore dei sistemi britannici di governance di terzo settore e volontariato per essersi laureato con la tesi "Dal Compact alla Big Society, laboratori di secondo welfare nel Regno Unito" - si rischia invece di intervenire in un ambito dove la distinzione tra enti che si occupano di cultura e di sociale in senso stretto non è ancora netta. Il modello inglese non porta vantaggi per il chiarimento di che cosa è sociale, che cosa è culturale e che cosa non appartiene al mondo del terzo settore, che al contrario è il primo passaggio necessario: “Il vero problema all'interno di entrambi i sistemi, quello inglese e quello italiano, è definire in modo più preciso e specifico la charity”, aggiunge Bandera.
Un esempio che viene da oltre Manica: il teatro dell'Opera di Londra è regolato dalla Charity commission. Un altro: le charity inglesi registrate sulle quali la Commission effettua poi le indagini sono solo quelle che hanno un valore al di sopra delle 5 mila sterline (6.100 euro). Le altre finiscono all'interno di un altro registro che non è vagliato dall’ente.
La Commission, che esiste dal 2007, ha il compito di “mappare le charity, dirimere eventuali contrasti tra di loro e svolgere investigazioni nel caso in cui una charity non abbia una struttura conforme alla legge”, spiega Bandera. Anche in questo caso dalla lezione inglese si potrebbero trarre insegnamenti per l'Italia: oggi l'ultima funzione d'indagine non c'è più, essenzialmente per problemi di budget. La nostra vecchia Agenzia del terzo settore, più economica rispetto al modello britannico, “segnalava alla Guardia di Finanza nel caso in cui ci fosse qualcosa che non andava”, precisa Bandera. L'agenzia chiusa nel febbraio del 2012 secondo Bandera è “un valido strumento da cui ripartire per la riforma del terzo settore”, perché “nessun altro organo ha svolto il suo compito di promozione e di soft law”. Un'indicazione da prendere dal modello inglese potrebbe essere quella di “rafforzare i poteri di ispezione”. Insomma, l'Italia parte da un buon presupposto, da cui può aprirsi a qualche suggerimento dall'estero. Ma è chiaro che l'Agenzia è ciò che serve: “Ce ne sono per ogni settore, anche di meno influenti, dove non ci sono 5 milioni di volontari”, chiude Bandera. (lb)