Tra i baraccati di Ponte Mammolo: “Tutti ci hanno abbandonato”
ROMA - “Qui non si vive, si guarda gli altri vivere”. Kibrom, 36 anni, abita in una baracca di lamiera poco oltre il parcheggio della stazione di Ponte Mammolo. “Quando sono arrivato in Italia dall’Eritrea tutto mi sembrava possibile anche se non avevo soldi e non sapevo l’italiano: potevo cominciare una nuova vita, lontano dalla dittatura, dalla guerra”. Oggi, dopo undici anni, la sua vita è rimasta bloccata al giorno del suo arrivo. Nonostante il diploma da infermiere preso con sacrifici all’ospedale San Camillo, vive ancora nella baraccopoli di Ponte Mammolo. “Il lavoro non c’è, così l’unica cosa che possiamo fare è restare qui”.
I numeri sulla porta. Come lui vivono altri 150 migranti: la maggior parte sono eritrei, ma ci sono anche etiopi, russi, polacchi, ucraini e romeni. Tutti uomini dai 30 ai 40 anni. C’è una sola donna eritrea che abita con la sua piccola di tre anni. All’ingresso del campo è stato appeso un cartello: “Comunità La Pace”, perché “qui viviamo in pace con tutti e dimenticati da tutti”, dice Kibrom. Dentro è un susseguirsi di vicoli stretti, baracche di lamiera e plastica, panni appesi ad asciugare e rifiuti di ogni genere. Bottiglie, resti di cibo, pezzi di legno, calcinacci, lavandini abbandonati. Su ogni porta un numero dipinto in rosso: 48, 49, 50. Ci sono solo due bagni collegati al sistema fognario e una doccia rudimentale. La maggior parte vive senza elettricità: “Qualche mesi fa sono stati tutti denunciati dalla polizia perché rubavano la corrente dai pali della luce”, racconta Isa Buonomine, presidente dell’associazione Umanistan.
"Non abbiamo più hope". Pochi hanno voglia di parlare: “Sono venuti qui giornalisti, associazioni, politici. Tutti ci promettono che ci aiuteranno ma poi se ne vanno e non fanno niente per noi”, dicono in molti. “Per voi noi siamo zero, non valiamo niente. Non ci date neanche la possibilità di dimostrare quello che sappiamo fare. Lui faceva il fabbro in Eritrea”, dice Kibrom indicando un suo amico che non vuole parlare, “qui dovunque va trova la porta chiusa. Il Papa a Lampedusa ha detto che bisogna accogliere quelli come noi, ma nessuno lo ascolterà. Non abbiamo più hope”. Speranza. Isa Buonomine racconta che il terreno dove sorge il campo è stato dato in concessione dal demanio all’Istituto Superiore di Sanità. “Avevamo preso accordi con il quarto municipio e preparato un progetto che prevedeva la realizzazione di piccole casette in muratura. Anche l’Istituto era d’accordo. Poi però con le elezioni comunali tutto è saltato”, dice Buonomine.
Abbiamo anche il camino... Un lungo muro fatto da lamiera divide la Comunità La Pace dalla parte dove vivono quattro famiglie del sud America. La prima ad arrivare qui dall’Ecuador è stata proprio Dolores: “Abitavo in un palazzo occupato in via Nomentana, poi ci hanno cacciato e siamo venuti qui. Ci siamo separati”, continua Dolores, “perché gli africani sporcavano tutto, buttavano l’immondizia in messo al campo e non potevamo vivere con loro”. Con fatica hanno costruito tre casette in muratura, hanno piantato fiori, fatto la richiesta per la luce e sistemato una porta di legno con tanto di serratura davanti all’ingresso del campo. Dolores vive con sua figlia Maira che le ha dato due nipotini: Chiara di 4 anni e Iris di soli sette mesi. Oltre a loro ci sono altri due bambini: Luigi di tredici anni e Franki di tre. Sono tutti in regola e hanno preso la residenza nel campo. “Noi lavoriamo come domestiche e i nostri mariti come muratori. Qui ora stiamo bene, abbiamo anche il cammino per riscaldarci l’inverno, ma quello che vogliamo è poter dare una vera casa ai nostri bambini”, racconta Maira. Nel frattempo Chiara e Frankli corrono sorridenti insieme al loro cane Mattias nel piccolo piazzale del campo. (Maria Gabriella Lanza)