Tra i sikh del Punjab pontino: "Nei campi più di 10 ore al giorno per 30 euro"
Lavoratori indiani
ROMA - Orari di lavoro che superano le 10 ore al giorno, salari bassi, irregolarità contributive e un caporalato che sebbene sembri meno presente spesso assume le forme della tratta dal paese d'origine. Siamo nel cosiddetto Punjab pontino, Lazio, e a raccontare lo sfruttamento dei lavoratori immigrati tra campi e serre è il rapporto "Terraingiusta" realizzato dai Medici per i diritti umani (Medu). "Da almeno un ventennio la provincia di Latina è una delle aree agro-alimentari più importanti d’Italia in quanto a presenza di lavoratori stranieri - spiega il rapporto -, in arrivo per lo più dal Punjab indiano e dall’Europa dell’Est. Concentrati soprattutto nell’area meridionale dell’Agro Pontino, i sikh del Punjab indiano rappresentano uno dei gruppi più importanti della zona in termini di presenze". Secondo il rapporto si tratta di una comunità strutturata, composta principalmente da migranti stanziali, per lo più uomini, anche se negli ultimi anni si è registrato un aumento della presenza femminile in seguito ai primi ricongiungimenti familiari.
Il 99 per cento dei migranti assistiti da Medu al momento della ricerca, inoltre, era titolare di un regolare permesso di soggiorno e il 70 per cento era impiegato nel settore agricolo. Tra di essi l’86 per cento era in possesso di un contratto di lavoro e la presenza in Italia si spinge anche oltre i cinque anni per molti dei lavoratori. Il 97 per cento è in Italia da più di due anni. Il 67 da più di 5, ma tra questi molti sono in Italia da più di 10 anni. "L’80 per cento degli intervistati viene pagato in media 4,5 euro l’ora- spiega il rapporto -. La paga giornaliera totale oscilla in oltre la metà dei casi tra 32 e 36 euro. In media sono nove i mesi d’impiego all’anno rilevati e otto le ore medie di lavoro quotidiano. Un migrante su cinque lavora più di dieci ore al giorno". E le testimonianze raccolte sul campo confermano quanto affermato nel rapporto. Come quella di Guninder (34 anni, India): "Fino a tre anni fa lavoravo in un’azienda agricola. Raccoglievo ortaggi per 8-10 ore al giorno, 6 o 7 giorni a settimana. Poi ho deciso di denunciare il datore di lavoro che non mi aveva pagato per molti mesi. Insieme a me lavoravano altri dieci indiani ed erano nella mia stessa situazione. Oggi non ho più un lavoro o, meglio, lavoro solo saltuariamente". E i salari, oltre ad essere bassi, discriminano anche le donne. Come racconta Jasmit (32 anni, India) "Lavoro nel magazzino di frutta e verdura di una grande azienda agricola dove mio marito lavora come stalliere. In tutto siamo circa 50 indiani, ma noi donne guadagniamo 3,20-3,50 euro/ora, mentre gli uomini ne guadagnano 4".
Secondo i dati raccolti da Medu, il 65 per cento dei lavoratori con contratto di lavoro ha dichiarato di vedersi riconosciuti i contributi per un numero di giornate lavorative inferiore a quelle effettivamente svolte, il 4 per cento di non vederseli riconosciuti affatto, il 10 per cento di non sapere se usufruirà dei contributi e il 6 per cento dei migranti non ha risposto alla domanda. Solo il 15 per cento dei lavoratori intervistati ha affermato di usufruire di tutti i contributi previsti. Per quanto riguarda le condizioni di vita, i ghetti della Capitanata sono lontani. "L’88 per cento vive in appartamenti in affitto condivisi con i familiari o altri connazionali - spiega il rapporto -, mentre il 78 per cento dei lavoratori agricoli regolarmente soggiornanti è iscritto al Servizio sanitario nazionale e usufruisce con una certa continuità del medico di base".
Tuttavia, spiega il rapporto, il possesso di un contratto di lavoro in molti casi non tutela il lavoratore straniero dal subire pratiche lesive dei propri diritti. Tra gli aspetti più critici, oltre ai tempi di lavoro, al sottosalario e alle irregolarità contributive, vi è il fenomeno del caporalato "che in questo territorio arriva in alcune situazioni ad assumere le caratteristiche di una vera e propria tratta che parte dal reclutamento nel paese d’origine". Per quanto riguarda l’integrazione, infine, anche qui ci sono degli ostacoli: se la gran parte dei lavoratori intervistati era regolarmente iscritto al Servizio sanitario nazionale, quasi là metà di essi aveva una conoscenza scarsa o nulla della lingua italiana pur risiedendo nel nostro Paese da oltre cinque anni nei due terzi dei casi.