19 settembre 2018 ore: 15:53
Giustizia

Tragedia a Rebibbia, sospesi i dirigenti. Anastasìa: le responsabilità sono altrove

Intervista al garante dei detenuti di Umbria e Lazio: “Sono anni che parliamo del fatto che non dovrebbero esserci più bambini in carcere ma ce ne sono quanti ce n’erano 10 anni fa. Il carcere resta al centro della pena: sta qui il fallimento”

ROMA - “Sospensione per il direttore della casa circondariale femminile di Roma-Rebibbia, Ida Del Grosso, per la sua vice, Gabriella Pedote, e per il vice comandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti. Questa la decisione presa dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in seguito ai fatti avvenuti ieri nel carcere romano. I provvedimenti sono stati adottati dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Da ieri, inoltre, è in corso un accertamento ispettivo da parte del Dap”. Il ministero interviene sulla tragedia di Rebibbia, il carcere romano in cui ieri una detenuta - ristretta con i suoi due figli piccoli -, ha deciso di togliere la vita a entrambi. Mentre pieno appoggio e solidarietà ai dirigenti sospesi arriva dal garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasìa che si unisce all’unanime coro di reazioni, auspicando un passo indietro nella contro-riforma che di fatto “ha eliminato dal decreto ogni riferimento alle misure alternative”.

“Quello che è successo a Rebibbia – commenta il garante - è la tragedia più grande, quella non avevamo ancora mai visto. Ora bisogna chiedersi perché quella donna fosse in carcere, perché non avesse le possibilità di accedere a misure alternative con i suoi figli, se fosse adeguatamente assistita dal punto di vista sanitario. Queste sono le questioni di cui ci si dovrebbe occupare. Francamente, allo stato, non c’è nulla che lasci presagire una responsabilità diretta o indiretta dei dirigenti sospesi che ora pagano lo scotto dell’enormità della cosa. Probabilmente bisognava prendere dei provvedimenti esemplari, quando poi responsabilità magari non ve ne sono. Approfitto di questa intervista per ribadire la mia fiducia e stima nei confronti di tutti e tre perché so che sono persone di grande capacità e umanità. Tutto quello che avrebbero potuto fare certamente l’avranno fatto”.

Quando le responsabilità personali sono relative, le cause vanno ricercate altrove. E’ il sistema che va cambiato?
“Il primo dato macroscopico di questa vicenda è che stiamo ancora discutendo di una presenza nel femminile di Rebibbia di un numero di bambini che oscilla tra i 15 e i 16. Lo stesso numero di 10 anni fa. Lo stesso numero che c’era prima che venisse aperta la Casa di Leda, la casa famiglia per donne condannate e figli minori. Questo significa che evidentemente anche queste sperimentazioni di alternative al carcere non vengono usate con coraggio per ridurre, e cancellare, la presenza dei bambini in carcere. Ma vengono usate come una specie di area complementare per quelli che un giorno sarebbero andati a casa: invece di andare a casa loro vanno nella Casa di Leda. E questo è ovviamente un fallimento del sistema, perché significa che ancora una volta al centro del sistema c’è sempre e comunque il carcere. Poi se uno ha particolari risorse, fortuna, se nel suo territorio c’è un’esperienza come quella, se gli operatori lo seguono con particolare attenzione, eccetera eccetera, magari riesce ad arrivare ad una alternativa al carcere. Ma il carcere rimane comunque il punto d’accesso e il punto di svolgimento di gran parte delle pene. E’ questo il fallimento”.

Un tentativo di invertire la rotta, con la riforma Orlando, c’è stato. Ma non è andato a buon fine…
“Sono anni che parliamo del fatto che non dovrebbero esserci bambini in carcere ma ce ne sono quanti ce n’erano. Contestualmente, di tutto il processo di riforma che era stato avviato dal ministro Orlando è rimasto un piccolo decreto da cui sono state eliminate tutte le parole che facevano riferimento a una alternativa al carcere. Se il decreto, che ora dovremo chiamare ‘Bonafede’, nei prossimi dieci giorni, perché poi dovrebbe scadere definitivamente la delega, dovesse trasformarsi in legge, sarebbe un decreto da cui è espunto ogni riferimento alle alternative al carcere. Tutto questo, secondo un’idea veramente del secolo scorso, ma dell’inizio del secolo scorso, per cui la pena si svolge in carcere, il trattamento si svolge in carcere, qualsiasi cosa si svolge in carcere”.

Ci sono i termini, secondo lei, per un passo indietro sulla riforma ancora una volta sul filo di lana? Episodi come questo riescono in qualche modo a smuovere le coscienze?
“Mi sembra complicato, ma penso che questi episodi ancora una volta ci parlino di questo: del fatto che il carcere è un luogo di punizione che induce una straordinaria sofferenza e che quindi, se bisogna farvi ricorso, è solo, come si dice da troppo tempo, come extrema ratio. Spero che anche tragiche vicende di questo genere possano indurre il governo o almeno il ministero della Giustizia, a rivedere una politica carcero-centrica che non serve a niente e a nessuno. Contestualmente ognuno di noi dovrà fare la sua parte perché siano attivati altri mezzi e strumenti: perché sia garantita la migliore assistenza sanitaria e presa in carico, soprattutto dal punto di vista della salute mentale, e perché siano attivati percorsi di sostegno per l’inserimento e l’inclusione sociale. Per fortuna queste sono competenze non solo del governo ma anche delle regioni e degli enti locali che certo navigano in pessime acque dal punto di vista finanziario ma che, spero, possano attivarsi in questo senso. La sicurezza non si produce tenendo la gente sotto chiave ma accompagnandola in un percorso diverso”. (Teresa Valiani)

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