9 marzo 2022 ore: 14:06
Non profit

Ucraina. "Non basta il pacifismo, se fossimo noi in quelle condizioni cosa faremmo?"

Il presidente di Ipsia, Mauro Montalbetti si interroga sulle condizioni politiche della pace in una situazione in cui i rapporti di forza, sul campo, sono sproporzionati: "La costruzione della difesa, la prevenzione e la risoluzione dei conflitti devono poter contare oggi su strumenti operativi in grado di rendere effettivo il ristabilimento della pace. La deterrenza militare è uno di questi strumenti”
Mauro Montalbetti

Mauro Montalbetti, presidente di Ipsia

E' opportuno inviare armi in Ucraina, per sostenere la resistenza all'attacco di Putin? O esistono altre “armi” contro la guerra? Il pacifismo esiste ancora? E cos'ha da dire in questa crisi in cui l'Europa e la Nato hanno la responsabilità di dare una risposta a Putin, limitando il più possibile i danni e soprattutto i morti? Il dibattito, ma forse sarebbe meglio dire il dilemma, è più acuto che mai: Redattore Sociale offre il proprio spazio per ospitare il confronto tra chi, pur appartenendo allo stesso “terzo settore”, si trova oggi su posizioni diverse e contrarie. Ospitiamo oggi le voci di Daniele Novara (pedagogista e fondatore del Centro psicopedagogico per la gestione dei conflitti) e Mauro Montalbetti (presidente Ipsia). Leggi anche gli interventi della portavoce della Rete delle ong italiane, Silvia Stilli (leggi qui il suo intervento) e di Luca Lo Presti, presidente di Pangea onlus (leggi qui il suo intervento)

 

Ma il pacifismo non basta

di Mauro Montalbetti*

Viviamo tempi oscuri e perciò invidio chi in questi giorni si esprime con certezze granitiche e con il riflesso condizionato e rassicurante di ideologie militanti, delle adunate di piazze, dei cortei. Appartengo a una generazione che a 25 anni, dopo aver cantato sotto le macerie del muro di Berlino e aver creduto nella fine della conflittualità globale, ha visto di persona gli orrori della guerra nei Balcani, in Bosnia; i cimiteri a bordo strada, la distruzione totale delle città, i campi profughi, le fosse comuni a Sanica e Sanski Most, la prigione di Manjaca: sono cose che rimangono dentro, per sempre.

Una strage che durò 4 anni tra il 1992 e il 1996 e anche allora accompagnata da un dibattito surreale tre le truppe delle nazioni Unite imbelli e fallimentari (i famosi caschi blu olandesi che permisero il genocidio di Srebrenica) e le forze Nato che quando alla fine decisero di intervenire la mattanza ormai si era compiuta. I pacifisti che gridavano no war e i bosniaci che, come gli ucraini, chiedevano armi per difendersi dalle soldataglie serbe.

Dopo 30 anni rivedo in televisione le stesse scene di allora e le stesse parole d'ordine invecchiate. E' un cruccio che non mi fa dormire la notte. A differenza di tanti amici e colleghi non mi basta dire semplicemente “pace”. Penso che nessuno sano di mente possa essere  “per la guerra”. Ma non è possibile affrontare questi temi con un approccio etico esistenzialista, da imperativo morale che poi però non vede la trave reale della violenza negli occhi, non si può spostare il piano della discussione sempre su qualcos'altro, sulla complessità, su i ma e i però, quando vedi le stragi degli innocenti compiersi davanti a te.

Il tema è porsi la scomoda drammatica domanda, a se stessi prima di tutto: se fossimo noi in quelle condizioni che faremmo? Quali sono le condizioni politiche della pace?

Non ci sono risposte facili o pretendere schieramenti e posizionamenti politici per i quali non possiamo cavarcela con un dibattito in chat, il presidio in piazza o le citazioni di Rodari, Montessori e il Papa tirato sempre per la giacca da tutte le parti. Quando vengono meno i requisiti minimi vitali di convivenza di una comunità, avvolta nella violenza e che produce violenza e sopraffazione attorno a sé e agli altri, quando la diplomazia non funziona, quando il conflitto si aggrava e l'aggressore si esprime solo con i rapporti di forza sul campo e pretende di fare trattative con la pistola alla tua tempia, che fai?

Nel pieno di un conflitto e di un'invasione senza giustificazione alcuna di un paese sovrano, non si può semplicemente retrocedere il ragionamento a quanto successo 30 anni prima. Si possono avere tante e legittime opinioni su che cosa sia successo allora: ma oggi in Ucraina ci sono i carri armati russi, non quelli occidentali.

Questa inversione dell’onere della pace, come l'ha chiamata qualcuno, per cui dovremmo essere noi occidentali a porre fine a una guerra avviata da Putin, a stare a sentire certa sinistra politica e sindacale, è un paradosso grottesco ma che data la situazione non fa ridere per nulla. Gli ucraini la pace e la libertà l'avevano; sono stati invasi il 23 febbraio 2022. E' contro chi la guerra la fa e ne porta le responsabilità che bisognerebbe manifestare.

Una tregua è effettiva, se vi sono delle forze di interposizione militari che la presidiano e la fanno rispettare, chi si assume la responsabilità di far rispettare una tale tregua? L' Onu? Bene e chi impedisce all'Onu, usato come panacea retorica in tutte le narrazioni, di intervenire nelle situazioni di crisi? Se non la superpotenza aggressore che esercita il suo ruolo di veto nel Consiglio di sicurezza?

Questi giorni, comunque, rappresentano uno spartiacque. Noi democrazie politiche d'Occidente ci siamo illusi che nelle interlocuzioni con imperi e super potenze, fosse sufficiente il discorso razionale di una normale dialettica fra stati. Abbiamo chiuso gli occhi, nonostante tanti segnali premonitori, al fatto che attorno a noi si ricostruiva una realtà diretta da un leader autoritario in cui la forza, l'uso della violenza statuale e dell'azione militare imperiale rappresentano l'unica vera fonte e legittimità del potere, del consenso, le uniche categorie del politico.

Le ong e la associazioni che promuovono azione umanitaria , quando intervengono nelle aree di crisi devono aiutare tutti, siamo attori terzi della società civile, non dobbiamo schierarci per forza; ma se siamo costretti dagli eventi della storia a confrontarci anche con il piano della politica, allora di quella politica dobbiamo comprendere la natura, le cause, le modalità di azione.

Non basta dire quello che facciamo noi sul campo, perché non è questo in discussione. E allora come soggetti che si trovano ad operare nell'area internazionale mi chiedo: possiamo continuare ad ignorare e non confrontarci con il tema delle politiche militari e di difesa? Dopo aver reclamato per anni l'assenza dell'Europa e la sua incapacità di interventi nelle aree di crisi, si assume o no come obiettivo il tema della creazione di un sistema di difesa comune europea ?

Weber parlava di etica della convinzione ed etica della responsabilità, ecco occorre assumersi questa responsabilità senza che questo significhi rinunciare alle proprie idealità. Ed è su questo piano che ho condiviso la decisione dei governi occidentali rispetto all'invio degli armamenti all'Ucraina.

Qui non si tratti di fare il tifo o di giocare a Risiko, ma di valutare politicamente, in accordo con quanto deciso da altre realtà nazionali e sovranazionali, se il sostegno alla difesa armata di una democrazia aggredita e oggetto della più grave delle violazioni del diritto internazionale possa essere uno degli strumenti possibili da affiancare alla diplomazia, così come le sanzioni economiche e il Tribunale Penale Internazionale. Nel dibattito pubblico c'è un equivoco di fondo: inviare assistenza militare non vuol dire che allora si è per la guerra. È evidente che il dialogo e il confronto e la soluzione pacifica di un conflitto è l'unica reale soluzione ma bisogna creare le condizioni per il dialogo e almeno per una tregua, altrimenti non riparte proprio nulla. E Il tema della costruzione della difesa, della prevenzione e risoluzione dei conflitti deve poter contare oggi su strumenti operativi in grado di rendere effettivo il ristabilimento della pace. La deterrenza militare e' uno di questi strumenti.

Certo il tutto nello specifico della guerra in Ucraina è segnato dal coinvolgimento di una delle principali potenze nucleari del pianeta. Ma come potremmo negare alla radice il diritto alla difesa e al rispetto della propria integrità territoriale? Sarebbe consegnare di fatto politicamente alla Russia una sorta di diritto all'intervento unilaterale non sanzionabile perché sotto il ricatto della minaccia nucleare.

Dopo una illusoria politica di appeasement che ha prodotto i risultati che vediamo, l'Europa sta reagendo, una volta tanto con un po' più di compattezza, anche perché vi è la consapevolezza drammatica da parte di molti attori statali, che l'azione intrapresa della Russia potrebbe (mi auguro si sbaglino) non riguardare solo l'Ucraina, ma una dislocazione complessiva del profilo della superpotenza russa e della sua egemonia a breve termini su i paesi vicini.

Su questo registro una sostanziale inadeguatezza da parte di tutti noi della società civile a coglierne il tratto con strumenti analitici adeguati, anche perché, giustamente, la geopolitica, la fenomenologia del potere e dei poteri e le strategie militari degli attori, non sono mai stati la cifra della lettura e di interpretazione della realtà dei soggetti della cooperazione internazionale.

Ma dovremo imparare al più presto ad assumere anche queste chiavi di lettura non perché le condividiamo, ma perché altrimenti la realtà ci apparirà non intelligibile, se non attraverso la ripetizione automatica di parole d'ordine fine a se stesse che risulteranno come ora totalmente inefficaci.

Il discorso revanscista di Putin del 21 febbraio ha cambiato la rotta della storia d'Europa, dobbiamo essere consapevoli che oltre all'evoluzione del conflitto in Ucraina, si rischia di destabilizzare altre zone e accendere focolai su faglie nazionaliste mai chiuse ad est e nei Balcani.

Kiev si sta preparando al peggio. E a meno di gesti profetici e simbolici improbabili delle cancellerie occidentali, la guerra andrà avanti. Nessuno può fare previsioni sull'evoluzione. Non ci serve un massacro di milioni di persone, Zelensky e il popolo ucraino sono dalla parte giusta della storia e verranno ricordati per questo. Ma ci servono vivi, anche per loro stessi, e ci servono subito nell'Unione Europea. Putin potrà vincere una battaglia, una guerra forse, ma ha già perso quella dell' anima e il diavolo, come Faust , prima o poi verrà a prenderla.


*Mauro Montalbetti è presidente di IPSIA, Istituto Pace Sviluppo Innovazione di Acli


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