29 dicembre 2020 ore: 11:00
Società

Io, trans e ipovedente, di corsa verso Tokyo

di Antonella Patete
Valentina Petrillo è un'atleta transgender, gareggia con le donne. Da quando ha cominciato la transizione ormonale, è diventata più felice. E non ha più bisogno di nascondere né la sua identità sessuale né i suoi problemi di vista. Intervista pubblicata sulla rivista SuperAbile Inail
Valentina Petrillo Campionati italiani di Jesolo 2020

Valentina Petrillo ai Campionati italiani di Jesolo 2020

ROMA - Correre, correre, correre. Per tutta la vita Valentina Petrillo ha sognato di calcare le piste di atletica e oggi si allena in vista di Tokyo 2020, dove spera di qualificarsi nella categoria T12, quella degli atleti ipovedenti. Nata a Napoli nel 1973, quasi due anni fa ha deciso di intraprendere la terapia ormonale per cambiare sesso e oggi è la prima atleta transgender a gareggiare con le donne, anche se non è operata e all’anagrafe risulta ancora come Fabrizio. Secondo le linee guida emanate dal Cio nel 2015, Valentina può competere nella categoria femminile grazie a una concentrazione di testosterone sotto la soglia dei 5 nanomoli. E così, dopo un travagliato iter burocratico che ha coinvolto la Federazione paralimpica dell’atletica leggera (Fispes), il Comitato italiano paralimpico (Cip) e il World Para Athletics, Valentina ha gareggiato per la prima volta con le donne, lo scorso settembre a Jesolo. Coniugando due universi, quello transgender e quello sportivo che, fino a questo momento, non si erano mai incontrati. SuperAbile Inail l’ha intervistata all’inizio di ottobre, durante i campionati societari della Fispes, un appuntamento che ha visto riunirsi l’intero gotha dell’atletica paralimpica e dove Valentina era presente con la sua società, la Omero Bergamo.

Come va la preparazione per Tokyo 2020? La vedremo nella Nazionale?
Magari, ma è difficile fare previsioni. Ce la metto tutta, ma sono un’atleta un po’ indisciplinata. Per esempio, tendo a risparmiarmi sulle ripetute più lunghe per dare tutto su quelle fino a 300 metri. E poi sono anche goffa negli esercizi, perché ho cominciato a fare atletica tardi.

A quanti anni?
A 20 anni, prima ignoravo che esistesse il mondo dello sport paralimpico. È successo quando da Napoli mi sono trasferita a Bologna per studiare informatica all’Istituto dei ciechi Francesco Cavazza. È lì che ho imparato ad accettare la malattia di Stargardt, che rappresenta la forma più comune di degenerazione maculare ereditaria. Fino a quel momento l’avevo sempre tenuta nascosta.

E prima di scoprire la passione per la corsa?
Mi sono innamorata dell’atletica all’età di sette anni, quando ho visto per la prima volta Pietro Mennea vincere le Olimpiadi dell’80, nei 200 metri. Lì capii che l’atletica poteva essere il mio mondo. Ma a quei tempi, a Napoli, non era facile seguire gli allenamenti e io non ho mai trovato il coraggio di chiedere ai miei genitori di portarmi a fare atletica, anche se era quello che desideravo. Così ho cominciato a giocare a calcio, stavo in porta. Poi, quando a 13 anni si è presentata la malattia di Stargardt, sono passata in attacco, ma non ero un asso. Solo quando sono arrivata a Bologna mi sono avvicinata all’atletica, con grandi soddisfazioni, anche se come persona ancora non mi sentivo completa.

In che senso?
Già all’età di quattro o cinque anni aveva esordito questo desiderio di femminilità, che poi tre anni fa è finalmente esploso, perché non sono più riuscita a dominarlo come avevo sempre fatto nella mia vita. A nove anni ho cominciato a indossare i vestiti di mia madre di nascosto, tenendomi tutto dentro. Anche la comparsa della malattia mi ha costretto a guardare il futuro in maniera diversa, ridimensionando le mie aspettative. Una persona cieca o ipovedente non ha molte scelte, di solito può trovare lavoro solo al centralino, nella fisioterapia e nell’informatica, che io ho scelto come sbocco professionale. Invece mi sarebbe sempre piaciuto fare l’hostess.

I segreti, insomma, erano due...
I miei amici non sapevano nulla e anche a scuola nascondevo la mia disabilità. Erano al corrente dei miei problemi di vista, ma nessuno capiva la gravità. A scuola non ho mai avuto un insegnante di sostegno e mi sedevo sempre in fondo, perché tanto non vedevo niente neanche al primo banco. Ho dovuto aspettare di arrivare a Bologna per capire che non dovevo vergognarmi della mia malattia, e che comunque potevo fare una vita normale. Vedere persone che, pur vivendo una situazione più grave della mia, facevano cose che io non riuscivo a fare mi ha aiutato a diventare più autonoma.

Nel frattempo continuava a rimuovere il fatto di sentirsi donna.
Sì. Durante l’adolescenza mi facevo tante domande. Mi chiedevo perché mi volessi mettere la gonna come mia mamma e perché non mi cresceva il seno. Perché non potessi mettermi lo smalto e truccarmi e perché alla comunione dovessi indossare il saio francescano e non il vestito da sposina che usano le bambine. Mi facevo tante domande, ma non avevo gli strumenti per capire cosa mi stesse succedendo, banalmente mi è mancato anche il web: pensavo di essere l’unica al mondo a vivere questa situazione. E poi mi sentivo in colpa e non volevo dare un dispiacere ai miei genitori, ci ho sempre tenuto a che fossero orgogliosi di me.

Cosa la preoccupava di più?
In quegli anni essere femminiello a Napoli era la cosa peggiore che ti potesse capitare. Meglio camorrista che femminiello, dico sempre: il camorrista ha uno status più elevato. E poi non è che ci fossero tante alternative alla prostituzione, all’epoca. Iniziare le transizione di genere era costosissimo, non era possibile ricorrere alle strutture pubbliche come oggi. Quando, tre anni fa, mi hanno detto che mi avrebbe seguita un’équipe di medici dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, non mi pareva vero: ero rimasta agli ormoni clandestini e alle operazioni per cambiare sesso a Casablanca. Mi sono mancati gli esempi positivi, insomma, sui media ho sempre visto eccessi di femminilizzazione che non mi appartengono: io sono una ragazza semplice, jeans e scarpe da ginnastica, non mi sono mai riconosciuta in questi modelli.

Lei è soprattutto una sportiva, infatti.
Sì. Tra l’altro mondo dello sport e mondo trans di solito non vanno molto d’accordo, anche se non ho capito bene perché. Non voglio essere da esempio a nessuno, ma sono pronta a mettere a disposizione la mia storia e l’esperienza di un anno e mezzo di transizione. Non ci sono precedenti, stiamo imparando ora cosa vuol dire. Per quanto mi riguarda, vincevo prima come uomo e, fortunatamente, continuo a vincere ora come donna.

La terapia ormonale le ha fatto perdere velocità. Come l’ha presa?
Me l’aveva detto la mia amica Joanna Harper, una scienziata canadese transgender che da 15 anni studia le prestazioni sportive nelle atlete trans. Io però non le avevo dato peso, nella convinzione che, diventando più felice, avrei corso come prima. Il giorno che presi la prima compressa già mi sentivo più donna e feci un tempo di 19.40’ sui 150 metri, un ottimo risultato. Ma da quel momento è cominciato un declino inesorabile e le prestazioni sono calate. Non è solo una questione di velocità, ma anche di capacità di recupero e di metabolismo. Siccome sono la prima atleta di questo livello che sperimenta la transizione di genere nessuno veramente sa che cosa accadrà nel tempo. A livello psicologico sto meglio, ma a livello sportivo sto ancora cercando il mio equilibrio. Una cosa è certa però: meglio essere una donna più lenta ma felice che un uomo più veloce ma triste.

Cosa le ha dato la forza di rivelare al mondo la sua identità sessuale?
È stata una questione di sopravvivenza. Non sono una persona coraggiosa, se avessi avuto più coraggio lo avrei fatto tanto tempo fa. Ma a un certo punto non ce la facevo più a fingere, a travestirmi di nascosto con gli abiti che mia moglie buttava via. Non potevo più mascherarmi da uomo. Il periodo più difficile è stato nei primi mesi del 2018, quando è nata Valentina. Uscivo vestita da donna, ma non avendo ancora cominciato ad assumere gli ormoni, il mio corpo era ancora quello di un uomo. Avvertivo uno sdoppiamento della personalità: Valentina non riusciva più a riconoscersi in Fabrizio. E io non riuscivo più a fare a meno di Valentina, era la mia anima che mi chiedeva di vivere.

Come ha reagito il mondo intorno a lei?
All’inizio ho fatto coming out con le persone più importanti della mia vita: prima con mia moglie, poi con mio fratello e mia cognata, infine con mio padre. Ho preferito dirglielo io, prima che venisse a saperlo da altri. Mia moglie è stata splendida, dopo un primo momento di confusione è stata lei ad accompagnarmi a comprare i primi vestiti da donna. Gli amici che conosco da una vita, invece, non hanno capito. Ho perso anche la famiglia allargata, che in parte si è riavvicinata dopo avermi visto in tv e sui giornali.

Sono finiti i sensi di colpa finalmente?
Macché, ce li ho ancora. Anzi ora si sono decuplicati, mi sento in colpa per la mia famiglia: per mia moglie e, soprattutto, per mio figlio. Se un giorno mi rinfacciasse che non sono stata un buon padre o il fatto che sono una trans, non riuscirei a sostenerlo. Per il momento, però, sembra aver capito, ho voluto spiegargli tutto anche se è ancora piccolo. Siamo molto legati e io provo sempre a fargli sentire la mia presenza. Quanto a mia moglie è una persona speciale: è l’unica donna che amo, di un amore diverso, ma se possibile ancora più grande.

(L’intervista è tratta dal numero di novembre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

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