Via dagli appartamenti: i rom di Torino rischiano di tornare in strada
Una famiglia della area macedone-kosovara, tra le prime a lasciare il campo, ritratta mentre porta via gli ultimi effetti personali
TORINO - Sono le sette di sera quando Mihai e Costinela ci accolgono nel loro monolocale di corso Vigevano, un "loculo" di due letti, bagno e cucina ammassati in trenta metri quadri alla periferia nord di Torino. Tra le mani, Mihai continua a rigirarsi la lettera d’espulsione ricevuta dal comune: a fine mese, “per gravi inadempienze sul progetto”, dovranno abbandonare lo stabile e cercarsi una nuova sistemazione. Ma i due hanno una figlia di un anno e mezzo, “che è nata prematura e soffre di cuore” spiega lui. “Non se ne parla di riportarla al campo”.
Il “campo” è l’insediamento abusivo di Lungostura Lazio, fino a un paio d’anni fa il più grande d’Europa: a gennaio 2014 ospitava un migliaio di rom, arrivati da ogni parte della Romania fin dal 1990. Oggi, tra le baracche di lamiera rimaste in piedi sulle rive dello Stura, di occupanti ne restano un centinaio: tra polemiche, ricorsi e uno stop temporaneo dalla Corte europea, lo sgombero va avanti a singhiozzo da quasi due anni, con oltre 800 occupanti evacuati.
È per loro che il comune ha messo in piedi “La città possibile”, un progetto che - con una serie di interventi occupazionali e socio abitativi - avrebbe dovuto garantirne l’inclusione nel tessuto urbano sabaudo. Finanziato con cinque milioni di euro in fondi europei, per un’ottantina di famiglie il programma doveva rappresentare un biglietto di sola andata per lasciarsi alle spalle topi, mura in lamiera e igiene precaria. Ma per molti di loro potrebbe trattarsi di un viaggio d’andata e ritorno.
Mihai e Costinela, ad esempio, il “patto d’emersione” lo hanno firmato un anno e mezzo fa. In linea con la “strategia d’inclusione” adottata dall’Italia su indicazione Ue, si sono impegnati, in cambio di un alloggio, a frequentare dei programmi d’avviamento al lavoro, a dare un’istruzione ai figli e a versare un contributo all’affitto che, dalle 70 iniziali, avrebbe dovuto lievitare progressivamente fino a 270 euro al mese. “Da cinque mesi non riusciamo più a pagare” spiega Mihai. “Siamo entrambi disoccupati, dobbiamo farci carico delle cure per la bambina e a malapena riusciamo a mettere il cibo in tavola. Il comune doveva trovarci un lavoro, ma stiamo ancora aspettando. E adesso ci vogliono mandare via”. Nella stessa situazione si trova anche Maricel, che con il comune ha accumulato arretrati per 1.700 euro. Dal momento che per un certo periodo ha deciso di tornare con la famiglia in Romania, nella lettera d’espulsione gli si contestano anche “le prolungate assenze dall’allocazione di corso Vigevano, che hanno reso difficoltosa la definizione, condivisione e realizzazione di un adeguato e proficuo percorso di accompagnamento all’autonomia”.
Nello stabile di corso Vigevano vivono 26 delle 81 famiglie che il comune ha ritenuto idonee a intraprendere un percorso verso l’indipendenza abitativa. Secondo Massimo Ferrua della cooperativa Valdocco, coordinatore del progetto, sarebbero sette i nuclei che non sono riusciti a rispettare i termini del patto d’emersione. “Alcuni - spiega - non hanno assicurato una presenza continuativa dei figli a scuola; altri non hanno frequentato i programmi d’avviamento al lavoro, e ora non riescono a pagare l’affitto”. Ma il 30 novembre, allo scadere dei due anni stabiliti per il progetto, non saranno solo gli inadempienti a dover lasciare l’edificio. “Qualche settimana fa è iniziata a circolare la voce che ci avrebbero mandati tutti via”, spiega Ionel, che a corso Vigevano ci è arrivato da soli due mesi. “Al campo mi hanno spaccato la baracca e mi hanno chiesto se volevo venire qui. A molti di noi era stato fatto intendere che, continuando a pagare l’affitto, avremmo potuto restare anche dopo novembre. E invece ora scopriamo che ci cacceranno tutti”.
Secondo Ferrua, però, si tratta di una ricostruzione “inesatta”. “Tutti - spiega - erano consapevoli di quale fosse la scadenza del programma. Nelle altre strutture di housing ci siamo impegnati a trovare accordi che permettessero, a chi lo vorrà, di restare dietro pagamento di un affitto. A corso Vigevano questo non era possibile: nel febbraio scorso è venuto fuori che la struttura non era abitabile”. La “scoperta” è arrivata con un dossier realizzato dal capogruppo d’opposizione Maurizio Marrone, che ha sottolineato come lo stabile fosse già stato sequestrato nel 2012 per una serie di abusi edilizi. L’edificio peraltro si è scoperto appartenere a Giorgio Molino, il chiacchierato “ras delle soffitte” che ha fatto fortuna ammassando immigrati irregolari all’interno delle sue mansarde nella periferia nord della città; e ora, quanti abitano in quei 26 appartamenti vedono avvicinarsi di giorno in giorno l’eventualità di tornare in strada.
Stando alla tabella di marcia stilata dal comune, gran parte delle famiglie dovrebbe aver raggiunto - a un mese dal termine del progetto - una quantomeno parziale autonomia economica. Ma a corso Vigevano, in realtà, quasi tutti lamentano serie difficoltà ad arrivare alla fine del mese. E non saranno solo loro, peraltro, a dover fare le valige entro il 30 novembre: a quella data, ben 35 nuclei su 81 dovranno trovarsi una nuova sistemazione. “Per loro - spiega Ferrua - stiamo cercando delle soluzioni d’emergenza. Ma in alcuni casi, mancando un contratto di lavoro, è oggettivamente difficile. Quel che è certo è che, da parte nostra, c’è la volontà di non lasciare nessuno in mezzo alla strada”.
Nello stabile, però, in molti raccontano un’altra storia. Renato e Brena, ad esempio, sono due rom di origine serba, ma sono entrambi nati in Italia. Prima de “La città possibile” vivevano nell’insediamento abusivo di via Germagnano, e hanno un figlio sordomuto di 9 anni, che a scuola pare cavarsela molto bene. “Guarda la pagella” tuona lui, con l’indice puntato sulla valutazione che recita: “distinto”. “Il bambino è bravo, si impegna, anche se sta male. L’altro giorno è venuta un’operatrice del programma: le ho chiesto cosa dovevamo fare se ci mandavano via, e lo sai che ha risposto? ‘Tornatevene al campo’. Ma io non ci vado più lì, in mezzo ai topi, all’immondizia, al freddo. Hanno voluto che vivessimo in una casa, ci hanno praticamente obbligati: e ora, dopo due anni, vorrebbero farmi riportare mio figlio in quello schifo?”. Anche Maria Cristina racconta qualcosa di simile. Romena, d’età compresa tra i 30 e i 40, sta crescendo da sola cinque figli, la più grande di 13 anni. “Con enormi sacrifici - spiega - li sto mandando tutti a scuola. Il più piccolo inizierà l’asilo tra poco. Ho sempre pagato l’affitto, pur non avendo un lavoro fisso, e ora mi dicono che devo andarmene. Qualche giorno fa sono stata all’ufficio nomadi del Comune per chiedere aiuto: mi hanno risposto che se non ero in grado di badare ai bambini li avrebbero affidati all’assistenza sociale”. Via dalle baracche, dai topi, dall’immondizia. Ma nessuno aveva parlato di un biglietto di ritorno. (ams)