Quel diritto di sentirsi utili e di lottare contro le ingiustizie
Qualche giorno fa, alla ricerca di una citazione di Carlo Maria Martini, ho trovato questa frase, che mi ha molto colpito. Si trova nel libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, come risposta a una precisa domanda di Georg Sporschill: “Il singolo non è forse impotente di fronte alla miseria e all’ingiustizia di questo mondo?”. Ecco le parole del cardinale: “Quando seguo una catastrofe solo in televisione o sul giornale, mi sento sopraffatto e impotente. Quando invece aiuto qualcuno, sento la mia forza. Stare a guardare deprime, aiutare sorprende con l’esperienza di poter salvare una vita, contare sull’aiuto e sulla potenza di Dio. Il primo compito delle istituzioni sociali e di beneficenza è consentire a tutti gli uomini di buona volontà, e in primo luogo ai giovani, di accedere a persone e a situazioni in cui possono rendersi utili. Costruire tali ponti è un’arte che le professioni sociali moderne possono sviluppare ulteriormente. Tutti i giovani hanno il diritto di essere resi partecipi della lotta contro le ingiustizie”.
Sono rimasto un po’ di tempo su queste poche frasi, all’inizio senza capirne molto bene la ragione. Come spesso accade con Martini, avverti che le parole hanno una loro forza e profondità; risenti come la sua voce, con quelle caratteristiche espressioni nasali e non puoi passare oltre. Poi ho individuato tre punti focali per nulla scontati del suo ragionamento, tre parole chiave che mi hanno interpellato come operatore sociale e cooperatore. La prima parola chiave è quell’aggettivo numerale che apre la quarta frase: “primo”. Martini in sostanza ci dice che “consentire a tutti di accedere a persone e situazioni in cui possano rendersi utili” non è uno dei compiti, non è una funzione tra le tante o residuale, ma ha a che fare con la mission stessa delle istituzioni sociali e di beneficenza. Il primo compito, quasi prevalente su quello istitutivo di portare aiuto a chi ne ha bisogno. Un linguaggio paradossale, forse, ma che interroga a fondo le nostre organizzazioni, le modalità attraverso le quali si organizzano e comunicano con l’“esterno”. Appunto. Se il primo compito è consentire a tutti quell’accesso, bisognerebbe allora ragionare sui confini e sulle frontiere che separano il dentro e il fuori - a cominciare da alcuni linguaggi per iniziati (ah, le sigle del sociale!) – e sulla auto-centratura di molti nostri servizi. Il verbo consentire non mi pare scelto a caso, quasi che la tendenza attuale sia quella opposta. Non si tratta di promuovere, favorire, basterebbe consentire.
La seconda perla è quell’“arte” di costruire ponti. Come a dire: realizzare ponti di questa natura non è un mestiere, non consiste in pura operatività; è invece un’attività creativa, che richiede energia e merita ingegno. Ma quest’opera non è frutto della spontaneità o del volontariato migliore – non è neppure marketing spicciolo, orientato al fundraising - è piuttosto un compito che le “professioni sociali moderne” possono sviluppare. Anche qui appare un tratto paradossale, se appena si conoscono i corporativismi e gli specialismi delle “professioni sociali moderne”; brillante e un filo provocatorio questo richiamo alla capacità e alla possibilità dei professionismi sociali di mettere in contatto bisogni e problemi con il cittadino comune, in particolare con i giovani.
Da ultima, la parola “diritto”, a concludere il pensiero di Martini. Il diritto di tutti i giovani di essere resi partecipi della lotta contro le ingiustizie. C’è qui un rovesciamento sottile della logica a cui siamo abituati: quante volte sentiamo la lamentela sul disimpegno dei giovani, sul loro disertare i luoghi del sociale e dei servizi alla persona. Configurare un diritto alla partecipazione alla lotta contro le ingiustizie, vorrebbe dire cambiare radicalmente ottica, costringendoci a chiederci quanto siano adatte le nostre organizzazioni sociali a dare corso e concretezza a questo diritto.
Il diritto a sentirsi finalmente forti, aiutando qualcuno. (Oliviero Motta)
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