La psicologa Valentina Foa descrive le sue impressioni dopo aver visto la pellicola dedicata ai figli udenti dei genitori sordi, che si è aggiudicata l’Oscar: “Guardando il film non ho trovato nulla che mi desse fastidio nei protagonisti, erano tutti sordi come me”
TORINO - Sono andata a vedere “Coda. I segni del cuore” senza aspettarmi un granché. Sette anni dopo, l’idea di un remake de “La famiglia Belier” non mi entusiasmava. Anche perché, da persona sorda, quando ho visto il film francese ho sofferto tantissimo. Al cinema ho scalpitato tutto il tempo, quasi mi coprivo gli occhi dall’imbarazzo e dal fastidio che provavo dentro. Eppure il film non sembrava brutto. A tratti, anzi, mi faceva perfino ridere. E allora? “Diamoci tempo”, mi sono detta. Sette anni dopo, “Coda”, il remake de “La famiglia Belier”, ha vinto l’Oscar. Sembrava impossibile pensare che un remake americano potesse gareggiare con l’originale francese, apparentemente più bello, più autentico, più nuovo. Più tardi sono venuta a sapere che “La famiglia Belier” è a sua volta il remake di un film tedesco del 1996 intitolato “Al di là del silenzio”, ma quando sono andata a vedere “Coda” non ne ero al corrente.
Conoscendo però “La famiglia Belier”, ho iniziato a guardare “Coda” senza molte aspettative, anzi con lo spirito di quella che già sa tutto, che sa come andranno a finire le cose. Eppure questa volta non scalpitavo dinanzi al film, non provavo alcun senso di fastidio dentro di me: “Coda” era una pellicola che mi convinceva, che mi metteva a mio agio, potrei dire.
Ne “La famiglia Belier” l’unico attore sordo è Luca Gelberg, il fratello della protagonista Paula. I genitori sordi erano interpretati, invece, da attori udenti con movenze talmente esagerate e stereotipate che mi facevano pensare: “Ma si vede lontano un miglio che non sanno cosa significhi essere effettivamente sordi”. Bravi, per carità, ma era tutto così artificioso, così innaturale. In “Coda”, invece, tutti i personaggi sordi sono stati interpretati da attori sordi nella vita reale, una cosa molto rara, che spero diventi di uso comune. Il film mostra alcuni aspetti della quotidianità di una persona sorda, ignoti alla maggioranza: per esempio quando la barista istintivamente usa carta e penna per comunicare con il ragazzo sordo, che le risponde attraverso il cellulare, o quando la madre della protagonista, alla fine dello spettacolo, applaude perché vede gli altri applaudire.
Eppure la preoccupazione molto presente in questi giorni tra noi sordi è purtroppo confermata: molti giornalisti ancora tendono a usare dei termini errati riferendosi alla sordità: “sordomuti” anziché “sordi”, “linguaggio” dei segni anziché “lingua” dei segni, ignorando l’American Sign Language (Asl) adoperata negli Stati Uniti e la Lingua dei Segni Italiana (Lis), che si usa in Italia. Insomma, si vede che utilizzano certe parole senza averci pensato a lungo, sebbene molti dimostrino di saperne qualcosa in più rispetto al passato. In conclusione, prima di vedere “Coda” ero certa che mi sarei molto arrabbiata, perché noi persone sorde siamo talmente abituate agli errori e agli stereotipi che abbiamo paura di trovarceli di fronte anche al cinema.
Ho trovato invece la realtà dei Coda, i figli udenti di genitori sordi (children of deaf adults) rappresentata in maniera abbastanza fedele: a differenza dell’originale francese che racconta la sordità agli udenti, il remake americano presenta uno storytelling molto più aderente alla realtà delle persone sorde. Ci sono tendenze, atteggiamenti, espressioni, comportamenti che ti portano dentro al film, in maniera naturale, senza costringerti ad arrovellarti per capire cosa c’è che non va. Mentre guardavo il film non c’era nulla che mi sembrasse falso o infondato nei protagonisti: semplicemente erano tutti sordi come me!