5 per mille: in Italia il “tetto”, in Europa si destina anche 4 volte tanto
5 per mille. Foto colorata
ROMA – 5 per mille di nome, ma non di fatto. È questo l’allarme lanciato in questi giorni dal mondo del terzo settore contro il tetto di 400 milioni di euro fissato dalla legge di stabilità che per il non profit italiano significa nella realtà una riduzione della percentuale dell'imposta sul reddito delle persone fisiche dell'1 per mille (0,1 per cento), trasformando la misura in una sorta di 4 per mille. Ma mentre in Italia il Terzo settore chiede a gran voce di annullare il tetto del fondo destinato al 5 per mille o di portarlo almeno a 500 milioni (verosimilmente il reale 5 per mille), in Europa c’è chi al non profit destina una percentuale delle imposte ben 4 volte maggiore rispetto all’Italia, elargisce i fondi ogni anno proprio per il fatto di avere un’apposita legge e soprattutto non stabilisce nessun “tetto” ai fondi stanziati.
L’Europa dell’Est fa scuola. Introdotto in Italia con la finanziaria 2006, la quota dell’imposta che il cittadino decide di destinare attraverso la propria dichiarazione dei redditi ha radici quasi insospettabili. Probabile padre di tale strumento è Tamás Bauer, economista e parlamentare ungherese, che nel 1996 lanciò in Ungheria uno strumento che ha permesso di destinare l'1 per cento delle imposte a organizzazioni non profit. Da qui, tale strumento fu ribattezzato la “Onepercent law”, proprio perché non si parlava di millesimi, ma di una quota consistente delle imposte. Oggi, questo meccanismo è molto diffuso e secondo Valerio Melandri, docente di Principi e Tecniche di Fundraising presso la Facoltà di Economia di Forlì e direttore del Master in Fundraising dell’Università di Bologna, lo si può trovare in ben 12 Paesi, mentre tranne in qualche caso, in quasi tutti i Paesi europei, ci sono benefici fiscali per chi dona al non profit, mentre sono parecchi i paesi che stanno sviluppando strumenti simili.
In Europa si arriva anche al 20 per mille. Le “One percent law” le troviamo, oltre che in Italia, in Estonia, Germania, Lituania, Repubblica Ceca, Polonia, Portogallo Romania, Spagna, Ungheria e perfino in Giappone se consideriamo soltanto le dichiarazioni dei redditi di persone fisiche. Anche in Slovacchia e Slovenia, per quanto riguarda sia le persone fisiche, che quelle giuridiche, quindi anche le aziende. In fondo alla classifica, insieme all’Italia solo il Portogallo e la Slovenia, che permettono di destinare lo 0,5 per cento. Poi c’è la Spagna, che ha un sistema complesso, dove si può destinare lo 0,7 per cento alle Chiesa cattolica o alle Cause sociali e poi sarà lo stato a decidere quanto destinare alle varie parti. Destinano l’1 per cento, quello che in Italia sarebbe il 10 per mille (quindi il doppio), l’Estonia, la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria. Al 2 per cento, quattro volte l’Italia (sarebbe il 20 per mille) la Slovacchia, la Lituania, la Romania. Meccanismi fiscali diversi, spiega Melandri, li troviamo in Gran Bretagna, dove esiste il Gift Aid che dà la possibilità di destinare le imposte su donazioni, in Croazia dove ci sono benefici per donazioni fino al 2 per cento e in Irlanda, dove viene applicato un meccanismo simile a quello britannico. In Germania, invece, c’è un 8 per cento (si chiama "Kirchensteuer") che va alla propria Chiesa, e si è obbligati a meno che non ci si “sbattezzi”, ma se contassimo anche per l’Italia l’8 per mille, arriveremmo complessivamente ad un 1,3 per cento.
Stabilità e tempi brevi per la ripartizione. Ad accomunare tutte le esperienze europee, ad esclusione di quella italiana, è l’esistenza di leggi stabili. Non si tratta, quindi, di strumenti valutati di anno in anno in legge di stabilità. Ma non è solo questo. “Quello che va messo in evidenza è che in molti Paesi l’organizzazione che riceve questa devoluzione delle tasse – spiega Andrea Caracciolo, membro del consiglio direttivo dell’ Associazione Italiana Fundraiser (Assif) e dello European fundraising association (Efa) -, ottiene i soldi in tempi molti più brevi. In Polonia avviene entro tre mesi dalla dichiarazione dei redditi e non devi aspettare 2-3 anni come in Italia. In alcuni paesi, poi, vengono forniti i nomi dei donatori e questo, in un’ottica di fundraising è fondamentale”. Secondo Melandri, infatti, in Gran Bretagna, Irlanda e Romania alle organizzazioni vengono fornite le informazioni dei donatori. Ma è la stabilità, il cruccio delle Ong italiane. “Nel nostro mondo facciamo sempre finta che ogni anno verrà rinnovato – spiega Caracciolo -, ma non è assolutamente garantito, quando per tante organizzazioni è una fetta importante della propria sostenibilità”.(ga)