"L'esperienza del dolore", una vicenda soggettiva tra distruzione e rinascita
Nei primi decenni del ’900 René Leriche, definito da molti il “chirurgo del dolore”, dichiarava che del dolore “sappiamo poche cose soltanto” evidentemente, aggiungeva “è un fenomeno tutto soggettivo che l’osservatore esterno non riesce ad afferrare”. Più che di dolore è opportuno parlare di dolori, perché ce ne sono un’infinità: conosciamo il dolore causato dalla malattia, quello “ambiguo” del parto percepito in maniera diversa, come dura prova o sensazione indimenticabile, esiste la tortura, forma di violenza assoluta mirata a saturare la vittima di sofferenza, sappiamo che esiste anche la ricerca del dolore finalizzato a un piacere, i comportamenti a rischio dei giovani, gli sport estremi, la body art, ecc. ecc. Sono solo alcune delle numerose varianti di un’esperienza fondamentale del vivere umano “vissuta nel profondo” la cui percezione “non è deducibile da una ferita o da una lesione” ma dipende dal significato che vi attribuiamo: contesto di riferimento personale, sociale e culturale ne differenziano l'intensità. Il dolore segna l’individuo investendo anche il suo rapporto con il mondo, nella sua valenza filosofica è un momento di cambiamento è un dato della condizione umana al quale prima o poi nessuno sfugge e una vita senza dolore è impensabile. Ne sa qualcosa il sociologo e antropologo David Le Breton, autore del testo “Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita” (RaffaelloCortina, 2014).
Secondo la lettura di Le Breton, la sofferenza che colpisce una persona non viene solo dal corpo o dai meccanismi fisiologici, ma dal senso con il quale quell’esperienza è vissuta. È il soggetto che soffre l’unico a conoscere la misura della propria sofferenza. Non esiste un dolore ‘oggettivo’ certificato da esami medici, esiste un dolore individuale segnato dalla storia del singolo. Se il dolore è un “concetto medico” la sofferenza è il “concetto dell’individuo che la prova”. È questo in sintesi il percorso approfondito dallo studio, nel quale Le Breton continua i temi contenuti già in “Antropologia del dolore” (1995) dove la questione veniva affrontata da un punto di vista culturale e sociale. In questa nuova opera, le diverse dimensioni del dolore sono presentate più sotto un'ottica cognitiva ed emotiva, al centro, il rapporto tra dolore e sofferenza.
La cura non agisce mai in modo meccanico. La sofferenza reiterata distoglie l'individuo dell’essenziale, azzera il confine tra interno ed esterno, fino ad annullare la soglia del “sentirsi persona”, il dolore toglie il gusto delle cose, ci strappa dalle abitudini, ci segna profondamente e l’intervento per alleviarlo, contenerlo, non può essere esclusivamente chirurgico o farmacologico, né si può limitare a contrastare le attività fisiologiche intervenendo su di esse, la cura non agisce mai in modo meccanico. Breton tenta di spiegare i comportamenti e le trasformazioni che il dolore produce, segnala l’importanza di mantenersi il più possibile vicini a chi soffre. Per riprendere in parte o del tutto, il controllo della sofferenza è necessario l’aiuto di medici e terapeuti, ma la sofferenza è legata anche al tenore del rapporto stabilito con le persone che contano per il paziente e ad interventi che “agiscono sul senso” fondati sulla parola o sulle tecniche corporee (immaginario mentale, sofrologia, rilassamento, yoga…). Si tratta di mobilitare tutte le risorse, sollecitando lo stesso paziente a concorrere al lenimento del proprio dolore, perché se da una parte la qualità dei rapporti, l’attenzione e la generosità di chi segue la persona potenzia la cura, l’indifferenza e la routine ne limitano l’efficacia. (slup)