Alzheimer, ogni 5 anni raddoppia il numero dei pazienti dai 65 anni in su
ROMA - Una delle due malattie degenerative più diffuse del sistema nervoso è l'Alzheimer (l'altra il Parkinson), e l'età in cui comincia ad affiorare con una frequenza maggiore va dai 65 anni in poi. Da quel momento, ogni 5 anni raddoppia il numero delle persone colpite dalla patologia, fino ad arrivare, dopo gli 80 anni, ad una percentuale compresa tra il 30 e il 40%, con un'incidenza leggermente maggiore tra le donne. In occasione della Giornata mondiale della malattia di Alzheimer, che ricorre domani 21 settembre, la Dire fa il punto con Carlo de Lena, direttore del Centro Disturbi Cognitivi e Demenze del Policlinico Umberto I afferente al Dipartimento Universitario de La Sapienza.
"Il numero di pazienti sta aumentando non perché cresca la malattia, ma poiché è molto legata all'invecchiamento della popolazione. In Italia ci sono un milione e 200 mila persone affette da demenze di vario tipo, e tra queste circa 700 mila sono quelle affette dall'Alzheimer", ricorda il direttore. "Purtroppo, però, la malattia coinvolge completamente le famiglie, per questo motivo il numero negli effetti pratici deve essere moltiplicato per più componenti familiari".
È noto è che l'esordio dell'Alzheimer risalga a 20-30 anni prima dell'emersione dei sintomi, in quanto la proteina beta amiloide comincia a depositarsi moltissimo tempo prima. "Ad oggi la ricerca non sta solo cercando di trovare una soluzione farmacologica al problema- precisa il ricercatore de La Sapienza- punta ad arrivare anche a una diagnosi precocissima attraverso l'uso di sistemi non troppo invasivi e costosi. Esistono attualmente indagini che possono fornirci la certezza dell'accumulo- fa sapere lo studioso- e noi dobbiamo intervenire il prima possibile dal momento che le cellule nervose quando muoiono non possono essere riprodotte. Se il paziente arriva con una popolazione neuronale già depauperata non si può far più niente. Per questo motivo anche le terapie farmacologiche falliscono".
Il primo campanello di allarme dell'Alzheimer è sempre un disturbo della memoria. "Nel nostro centro stiamo cercando altri sintomi e lavoriamo molto su predittori più precoci della memoria come l'orientamento spaziale e temporale. Andando a valutare queste due funzioni- spiega De Lena- abbiamo notato che spesso sono compromesse prima della memoria e ci consentono di anticipare ancora di più la diagnosi".
A differenza dell'Alzheimer, il Parkinson esordisce sempre con dei sintomi motori (ad esempio il tremore), "meno importanti per la disabilità. A questi si aggiungono la rigidità della muscolatura e la bradicinesia (i movimenti si rallentano). Circa un quarto dei pazienti parkinsoniani a un certo punto manifesta anche una demenza e diventano pazienti con gli stessi problemi di altre popolazioni. Deve essere chiaro- sottolinea lo studioso- che gli Alzheimer sono tra il 50 e il 65% della popolazione affetta da demenza e che quando parliamo di terapie farmacologiche innovative, ci riferiamo solo a questi pazienti. Tutti gli altri non hanno nessuna possibilità aldilà della stimolazione cognitiva. Non hanno a disposizione nemmeno farmaci sintomatici. Si tratta di una situazione che in Italia riguarda tante centinaia di migliaia di persone".
Le demenze che pesano di più, oltre l'Alzheimer, sono la Demenza a corpi di Lewy (o DLB), la Demenza vascolare la cui incidenza si aggira al 15%, la Demenza frontotemporale e poi tutta un'altra serie di demenze legate al Parkinson e ad altri disturbi neurologici. "Alcune di queste demenze possono essere completamente reversibili, come l'Idrocefalo normoteso che prevede un abnorme quantità di liquor all'interno del cervello- precisa l'esperto- e intervenendo si ha la restitutio ad integrum completa del paziente".
In tema di ricerca farmacologica, da poco più di 25 anni - quando si è consolidata l'evidenza che è la proteina amiloide quella che si deposita nelle cellule procurando la patologia neurodegenerativa - "sono state condotte sperimentazioni che all'inizio hanno comportato problemi di tossicità, oggi risolti. La speranza è arrivare tra qualche anno ad una terapia in grado, non di migliorare i farmaci come quelli esistenti oggi, ma capace di agire sulla malattia e modificarne la velocità di progressione o arrestandola. Questo è il futuro a medio termine", spiega alla Dire il direttore del Centro Disturbi Cognitivi e Demenze del Policlinico Umberto I.
De Lena parla di studi condotti in 80-100 centri diffusi in tutto il mondo Occidentale, in Giappone e qualche volta in Corea del Sud, che interessano una popolazione che varia dai 1.200 ai 2.000 pazienti. "In Italia i centri sono concentrati soprattutto al Nord e al Centro. C’è purtroppo pochissimo in Italia del Sud, qualcosa in Puglia e in Campania, ma molto poco. Il nostro- fa sapere De Lena- è un grande Centro di terapia sperimentale e i risultati degli studi cominciano ad essere incoraggianti".
Accanto alla terapia farmacologica, De Lena lavora sulla stimolazione cognitiva. "Un ambito strategico- sottolinea l'esperto- se consideriamo che i farmaci, quando saranno disponibili, riguarderanno solo una fascia molto ristretta della popolazione di malati, perché saranno estremamente costosi come nel caso dell'epatite C". Sulla stimolazione cognitiva "alcuni anni fa abbiamo pubblicato una ricerca effettuata su un campione di 180 pazienti sottoposti due volte a settimana a una terapia mirata sia ad aumentare la riserva cognitiva che a vicariare quelle funzioni non più completamente perfette. Lo studio è stato portato avanti per 6 mesi con risultati sorprendenti- aggiunge il ricercatore- poi confermati in letteratura da altre ricerche realizzate in diversi centri, soprattutto all'estero".
A Roma il Centro Disturbi Cognitivi e Demenze del Policlinico Umberto I collabora con la Fondazione Igea, "impegnata sempre nelle terapie di stimolazione cognitiva con uno studio condotto insieme all'Università di Pisa che ha prodotto buoni risultati", aggiunge De Lena. La stimolazione cognitiva prevede attività che implementano le singole funzioni: la memoria, l'attenzione, l'orientamento e il riconoscimento. "Stiamo cercando di coinvolgere anche le persone sane ma a rischio, perché maggiore è la riserva cognitiva e più tardi e più lentamente si presenterà la malattia. Questa non è una terapia che modifica l'insorgenza della malattia, poiché questa prima o poi ci sarà, ma può rallentarla".
Il grande problema oggi per le malattie neurodegenerative "è proprio la diagnosi precoce- conclude De Lena- i pazienti quando arrivano da noi sono già in una fase molto avanzata". Per prenotare una visita al Centro del Policlinico Umberto I basta chiamare il Cup dell'Ospedale o direttamente il centro digitando il 49914988. (DIRE)