In cerca di cultura fotografica: quando le immagini creano simboli e categorie
Raffaella Cosentino. Foto: Stefano Dal Pozzolo
ROMA - “Perché l'immagine di Aylan è diventata un'icona?”: la domanda ritorna in tutti gli interventi del Seminario di formazione per giornalisti di Redattore Sociale, “Questione di immagine”. È passato più di un mese dall'esplosione sui social network della fotografia del bambino siriano morto sulla spiaggia, che ha scosso l'opinione pubblica e posto molti interrogativi etici e professionali fra i giornalisti.
La giornata di approfondimento è dedicata al “Racconto visivo del sociale sui media – Il caso dell'immigrazione”: “Il progetto è nato da un incontro per il progetto Parlare Civile, che indagava il significato delle parole nel linguaggio giornalistico.
Giulia Tornari |
Ma c'è una grande ignoranza anche sulle foto, va creata una cultura fotografica che formi le persone su cosa c'è dietro, soprattutto per le immagini che vogliono raccontare la realtà, come vengono selezionati i materiali da pubblicare rispetto al contesto”, spiega Giulia Tornari, editor dell'agenzia Contrasto che ha promosso il progetto “Zona”, gruppo di studio e ricerca sui linguaggi audiovisivi, e fotografici e ha coordinato il progetto “Questione d’immagine”. Questo vuole essere una piattaforma aperta di discussione, a cavallo fra giornalismo, ricerca sociale e produzione video-fotografici, per riflettere su un linguaggio sempre più presente, che può creare etichette e stereotipi su fenomeni sociali complessi. Le tematiche analizzate sono cinque (immigrazione, rom, genere, Aids, droghe), con un'ampia ricerca sui media, giornali di tiratura nazionale e servizio televisivo pubblico, la Rai.
Claudio Cippitelli |
Claudio Cippitelli, sociologo, fondatore di Parsec, associazione di ricerca e intervento sociale, partner insieme a Zona e Redattore Sociale del progetto, ha curato la sezione riguardante le droghe: “A proposito di creazione dell'immaginario, siamo passati da volontari a delinquenti, grazie all'immagine simbolo che ritrae insieme cooperanti, politici e criminali – esordisce -. Nella nostra ricerca abbiamo trovato quasi solo immagini sciatte, poco creative, con le solite metafore esauste dell'albero con le siringhe, del cucchiaino con l'accendino, o le classiche copertine con donne nel solco di sesso, droga e rock'n roll. Dal 1975 i giornalisti sembrano acriticamente assoldati nella 'war on drugs'. L'unico contenuto davvero dirompente non è stato prodotto da giornalisti, ma dalla famiglia Cucchi: mostrando nel corpo martoriato di Stefano chi sono veramente le vittime della droga, mentre solitamente scompaiono le vite e le persone, sostituite da singoli episodi che fanno scandalo e creano lo stigma sociale”.
Andrea Pogliano |
Andrea Pogliano, che insegna sociologia dei media all'università del Piemonte Orientale, approfondisce l'analisi sul tema dell'immigrazione. Spiega che nella narrazione ci sono cinque tipi di problemi: i temi, cioè la continua insistenza su storie criminali, l'allarme continuo, l'emergenza; il fatto di citare sempre la nzaionalità, anche quando non c'entra; la scarsità di fonti informative, per cui la Questura la fa da padrona, e, negli anni '90, i comitati di quartiere, che sembravano la voce unica delle città; e infine, l'uso scorretto dei numeri, che portano a parlare di invasione. “L'aspetto delle immagini, è stato indagato poco anche in ambito accademico, nonostante la loro capacità di costruire mondi immaginari, storie, di fare cultura”. Si creano delle icone, che cambiano con gli anni: “Negli anni '80 e '90 era quella del venditore ambulante nero, sintetizzato nel titolo di Famiglia Cristiana 'Il terzo mondo in mezzo a noi'. Era un'immagine facile, visibile. Poi ci fu 'l'invasione', con immagini di gruppo, ma sempre all'insegna del miserabilismo. Poi l'immagine dei migranti 'buoni', i sikh, considerati gruppo non problematico, e i 'nostri', nell'intimità delle case, le colf, le cosiddette badanti. Infine la mano nera su pomodoro rosso: icona di sintesi dello sfruttato, di fronte a cui si cambia registro del linguaggio perché indicano lo sfruttamento del mondo occidentale. Quelli bianchi non vanno bene per le foto”.
Pogliano spiega poi che la foto serve a dare corpo a una categoria, a stabilire dei confini narrativi, come quello fra richiedente asilo e migrante economico, “il profugo e il clandestino”. “Il marocchino viene ritratto nello svolgere attività, l'islamico solo durante la preghiera in abiti tradizionali. Persino nei femminicidi c'è un diverso trattamento: se il carnefice è autoctono viene ritratto poco, singolarmente, a rappresentare il delitto passionale, mentre le foto di donne sono in gruppo, scollate e in minigonna, rivelando lo sguardo maschile. Se il delitto vede come protagonista un migrante, questo è più fotografato, e protagonista diviene la cultura di provenienza”. Allo stesso modo “quelli che ce l'hanno fatta”, i protagonisti positivi, quelli che “hanno diritto al ritratto sorridente” sono sempre storie di singoli la cui integrazione dipende dalla forza di volontà contrapposta alla propria cultura, “il viaggio solitario dell'eroe sganciato dal contesto sociale”, spiega il sociologo, mostrando l'esemplare storia di Rachid, venditore ambulante a Torino che si è laureato in ingegneria, conteso persino dal Grande Fratello.
Raffaella Cosentino |
Raffaella Cosentino, autrice sia per Parlare Civile che per Questione di immagine, pone l'acento sulla responsabilità etica dei giornalisti nell'"andare, vedere e raccontare”, e come si passi dalle immagini all'immaginario, che crea distanza (come l'idea dell'invasione, delle immagini degli sbarchi senza un prima né un dopo, senza storie), o vicinanza, come la recente foto della coppia di superstiti siriani di un naufragio che si baciano, o come le immagini dei salvatori di vite (come nel documentario “La scelta di Katia”), che però portano ad identificarsi con i bianchi. “I morti sono i grandi assenti, ci sono solo i numeri, tranne nel caso di Aylan, “considerata una foto storica. Ma non avremmo mai pubblicato una foto di un bambino morto europeo”. Di avviso parzialmente diverso è Francesca Paci, giornalista de La Stampa ed esperta di Medio Oriente, che sottolinea: “Il nostro lavoro può impattare sulla mentalità delle persone, e dobbiamo affrontarlo senza falsi moralismi: se una foto può servire ad aggiungere senso non sarei così severa. La Siria aveva un'problema di immagine' per cui l'opinione pubblica non si è accorta di 300 mila morti fino a quella foto”.
Tiziana Faraoni |
Perplessa di fronte a quella vicenda anche Tiziana Faraoni, photo editor del settimanale L’Espresso: “Vedo immagini altrettanto crude e devastanti ogni giorno, alcune non pubblicabili, ma non ho mai visto queste reazioni. Quando abbiamo messo in copertina i naufraghi aggrappati alla punta di una nave che affondava, non c'è stata nessuna reazione. E ancora mi chiedo perché”. Lancia infine una frecciata al mondo dei fotografi: “È vero che ci sono tanti stereotipi, ma è anche vero che molte foto sono tutte uguali”.
Valerio Cataldi, che da anni segue per il Tg2 e per passione personale i migranti nel Mediterraneo, mostra due video: uno ritrae le classiche immagini degli sbarchi, gli operatori con le tute anticontaminazione (che indicano pericolo) bianche, con in braccio bambini neri sorridenti, ritratti da dietro una transenna.
Valerio Cataldi |
Il secondo mostra un salvataggio in mare. Protocolli lasciati da parte, contatto fisico diretto, nessuna paura. I naufraghi vengono accolti da un cordiale “Welcome on board, how are you my friend” e una pacca sulla spalla, si inginocchiano a terra. In sala qualcuno si asciuga furtivamente gli occhi, qualcuno deglutisce. “Ecco, questo è il rapporto fra immagini e stato d'animo”, conclude Cataldi. (Elena Filicori)