Mobbing e discriminazione: la maternità fa paura alle aziende
Donne incinte durante corso pre parto
PADOVA - Quanto fa paura la maternità? Tanto. Ma non alle donne, o almeno non solo. La gravidanza fa paura alle aziende, che se ne devono accollare il costo sociale se la dipendente diventa mamma. Quindi i datori di lavoro, soprattutto nelle piccole o piccolissime realtà, mettono in atto forme di autotutela preventiva: lettere di dimissioni in bianco da far firmare alla nuova assunta e da sfoderare in caso di gravidanza, oppure indagini sulla vita personale della donna durante il colloquio. Tutto questo ha un nome: discriminazione. Questi aspetti sono stati evidenziati dal "Laboratorio di studio e ricerca per l'elaborazione di un modello di intervento per la prevenzione e risoluzione dei casi di discriminazione sul lavoro fondate sul sesso”, promosso dalla Consigliera regionale di Parità in collaborazione con le consigliere provinciali di Parità del Veneto, i Servizi per l'impiego del Veneto, l'Agenzia Veneto Lavoro. Della realizzazione del progetto si sono occupate le società Sintagmi srl e Antares srl, in cui operano le consulenti Paola Conti e Delia Zingarelli, sociologhe del lavoro ed esperte di analisi organizzativa in ottica di genere. Il progetto, che è durato 12 mesi e si è concluso a novembre 2006, ha coinvolto tutti i soggetti - come ad esempio i centri per l’impiego - che operano nel territorio e sono di fatto i sensori di questo tipo di dinamiche.
La ricercatrice Paola Conti delinea il quadro di questo problema: “La discriminazione agisce, da parte degli uomini, sia in modo consapevole sia inconsapevole, sulla base di stereotipi. Le donne talvolta stanno male, avvertono un disagio quando sono oggetto di discriminazione, ma non riescono a dare un nome a questo malessere. Altre volte si rendono conto di ciò che subiscono, ma avvertono un senso di vergogna, perché essere discriminate vuol dire, di fatto, non essere accettate”. Non è sempre evidente, dunque, per tutti i soggetti se e quando ci si trovi di fronte a discriminazioni di genere e se queste siano classificabili come di tipo diretto o indiretto secondo la distinzione effettuata dalla normativa vigente. “C’è comunque una reattività maggiore da parte delle persone che vengono esplicitamente discriminate” continua la ricercatrice, che sottolinea le opportunità di tutela offerte alle donne: “Chi ritiene di essere stata discriminata e vuole reagire può rivolgersi alla consigliera di parità, che è il soggetto maggiormente titolato a intervenire sia promuovendo il dialogo tra le parti, sia all’occorrenza portando la questione in giudizio”.
Ma spesso non è così semplice: “Anche se da un punto di vista legale le cose si possono risolvere, alla donna resta il disagio di dover lavorare in un luogo che è o è stato fonte di conflitto, per cui spesso decide di abbandonare il lavoro”. Come fare per uscire da questa impasse? “Bisogna che si trovino misure condivise a sostegno delle donne e anche delle aziende, con cui condividere il peso sociale della gravidanza della dipendente” conclude Paola Conti. La maternità, dunque, come causa principale di discrimiazione. Ma non è l’unica: il fenomeno comprende anche molestie sessuali, mobbing di genere, demansionamento, trasferimento post maternità. Durante il laboratorio i soggetti coinvolti hanno confessato, più o meno esplicitamente, di non essere intenzionalmente attivi nel prevenire, riconoscere, contrastare la discriminazione. (gig)