9 aprile 2014 ore: 11:33
Immigrazione

Un imprenditore straniero su 4 era un lavoratore in nero, 1 su 3 è entrato irregolarmente

Ricerca di Cna World ed Eures. Difficile il percorso di emersione dall’irregolarità: l’attesa media è di due anni per il permesso di soggiorno, ce ne vogliono 10 per aprire un’azienda. L’80 per cento sogna un futuro in Italia per sé e i propri figli
Alessandro Tosatto/Contrasto Immigrazione, negozio gestito da stranieri

ROMA – Un imprenditore straniero su 4, prima di aprire un’azienda a Roma era un lavoratore irregolare. Lo sottolinea la ricerca “Imprenditori e cittadini di questa città” realizzata da Cna World ed Eures, con il contributo della Camera di Commercio, condotta su un campione di 400 imprese. “Il percorso di integrazione degli imprenditori stranieri risulta pieno di ostacoli e di insidie, evidenziando come la condizione di irregolare rappresenti spesso un passaggio necessario di emancipazione verso più dignitose condizioni di vita”, sottolineano i ricercatori.

Stando ai dati sono soltanto 3 intervistati su 10 ad essere entrati in Italia attraverso un percorso del tutto regolare (il 15 per cento per lavoro a chiamata, l’11,3 per cento per ricongiungimento familiare e il 2,8 come Comunitari), mentre la quota più alta (43 per cento) ha utilizzato un visto turistico o per motivi di studio (rispettivamente 34 per cento e 9 per cento) e quasi un terzo di essi è entrato irregolarmente (26 per cento) o come rifugiato (2 per cento).  Secondo il rapporto l’esperienza della clandestinità è presente nella storia migratoria del 41,6 per cento degli imprenditori africani, scendendo al 32,1 per cento tra gli europei, al 21,3 per cento tra gli asiatici ed al 9,8 per cento tra gli americani (entrati in Italia nel 43,1 per cento dei casi come turisti, nel 17,6% per ricongiungimento familiare e nel 15,7% come studenti). L’ingresso irregolare ha inoltre riguardato più gli uomini (29,3%) che le donne (13,3%), ed i flussi pre-Giubileo (30 per cento a fronte del 21,8% per quelli successivi).

Inoltre, dall’indagine emerge che nel percorso di “costruzione” dell’attività imprenditoriale il 46,3  degli imprenditori stranieri ha subito l’esperienza del lavoro irregolare (il 40 per cento da lavoratore irregolare a lavoratore regolare a imprenditore e il 6,3% direttamente da lavoratore irregolare a imprenditore), con valori che raggiungono il 90,4 per cento tra quanti sono entrati irregolarmente e il 75 per cento tra i rifugiati; sul fronte opposto, una leggera maggioranza (53,7 per cento) riporta un iter lavorativo interamente “regolare”, avendo trasformato un lavoro regolare in attività imprenditoriale (46,8% dei casi) o avendo iniziato a lavorare in Italia come imprenditore (7%).

Difficile anche il percorso di emersione dall’irregolarità: l’indagine sottolinea, infatti, che è di 22 mesi il tempo medio atteso dagli imprenditori stranieri per ottenere il permesso di soggiorno (il 35,5% ha atteso meno di 1 anno, il 43,3% da 1 a 2 anni e il 21,2% oltre 2 anni). L’attesa del permesso di soggiorno dichiarata dal campione sale a 35 mesi tra quanti sono entrati come rifugiati ed a 27 tra i migranti irregolari, scendendo a 16 mesi nei casi di ricongiungimento familiare e di lavoro a chiamata. Il tempo medio intercorso tra l’ingresso in Italia e l’avvio dell’attività imprenditoriale risulta invece pari a 9,5 anni, che salgono a 16 tra quelli entrati in Italia prima del 1990; hanno invece atteso in media 6 anni gli imprenditori entrati dopo il 2000, e 9 quelli entrati tra il 1990 e il 1999.

Nelle interviste la maggior parte degli imprenditori stranieri dichiara di sognare un futuro italiano per sé e i propri figli.  L’81,6 per cento del campione immagina che tra 20 anni vivrà ancora in Italia, mentre il 18,4 auspica di poter tornare nel proprio Paese di origine. L’idea di un “futuro italiano” risulta ampiamente maggioritaria tra tutti gli imprenditori, con i valori più alti tra quelli di origine europea (86 per cento), seguiti dagli africani (82,6 per cento), dagli americani (80 per cento) e dagli asiatici (76,1) i quali, più frequentemente auspicano un ritorno al proprio Paese (23,9). Il più diffuso desiderio di permanenza in Italia si riscontra inoltre tra gli imprenditori entrati in Italia da 20 o più anni (89,3 per cento) e tra le donne (89,6 per cento). Soltanto la presenza degli affetti familiari nel Paese di origine aumenta il desiderio di ritorno (citato nel 100 per cento dei casi quanti vi è il coniuge e nel 50 quando vi sono i figli). Anche immaginando il futuro dei propri figli, l’auspicio del 91,1 per cento degli imprenditori intervistati è quello che possano anch’essi crescere e continuare a vivere in Italia; soltanto il 6,3 auspica un loro ritorno nel Paese di origine e il 2,6 un futuro in un altro Paese economicamente più solido (America, Inghilterra o Germania).

Nel rapporto con le istituzioni romane:  nel 40,3 per cento dei casi gli imprenditori stranieri hanno rilevato un atteggiamento positivo delle istituzioni di fronte alla loro iniziativa imprenditoriale; resta tuttavia elevata la percezione opposta: il 32% segnala infatti un atteggiamento negativo (burocratico e reticente), mentre il 27,8% non rileva particolari connotazioni.

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