21 ottobre 2013 ore: 12:25
Economia

Emergenza casa a Torino: così ci si ritrova in strada senza rendersene conto

Il direttore della Caritas locale Pierluigi Dovis: “Il peggio deve ancora venire: altre 4 mila famiglie a rischio strada nel periodo più freddo dell’anno. E punta il dito sulla politica: “Irresponsabile una comunicazione che parla di una crisi passeggera”
Sfratti, uomo con valige

TORINO – “Il peggio potrebbe dover ancora arrivare”. Così Pierluigi Dovis, direttore della Caritas di Torino, fa il punto della situazione nel capoluogo sabaudo, attraversato da un’ondata di sfratti esecutivi che negli ultimi tre anni si è andata progressivamente gonfiando, fino a esplodere con i 4 mila conteggiati nel 2012. In virtù della sua carica, Dovis è in grado di delineare un quadro preciso di quanto accade in città: la Caritas interviene sui vari fronti dell’emergenza, collaborando a progetti di housing sociale come la residenza D’Orho, da poco attivata dall’opera di Don Orione, o a programmi come “Insieme per la casa”, che gestisce una serie di alloggi privati a prezzi calmierati, per le famiglie colpite da difficoltà economiche.

“Siamo di fronte a situazioni che trovano impreparato il nostro sistema di welfare” continua. “La maggior parte delle famiglie che stanno perdendo l’alloggio fanno parte della cosiddetta classe media, la più colpita dalla crisi. È gente che ha contratto l’impegno dell’affitto o del mutuo in vista di un progetto di vita più ampio, perché aveva risorse sufficienti a sostenere canoni che si aggiravano anche tra i 600 e i 900 euro mensili. E che nel giro di un paio d’anni si è trovata di fronte a difficoltà economiche inconcepibili fino a quel momento”.

“Nei primi tempi – continua – questi nuclei familiari sono andati a rosicchiare le poche risorse disponibili o hanno chiesto aiuto ai parenti. Soluzioni del genere, però, finiscono spesso per aggravare la situazione: esauriti i risparmi, ci si trova di fronte all’impossibilità di pagare l’affitto. A quel punto, nel giro di due o tre mesi, il proprietario, soprattutto quando si tratta di una società, fa partire il procedimento di sfratto, che arriva a conclusione in un tempo massimo di altri dodici mesi”.

Molte famiglie finiscono per ritrovarsi fuori casa senza rendersene quasi conto. Passando, nell’arco di un anno, dalle prime difficoltà alla perdita dell’alloggio. Viene però da chiedersi perché molti di loro non cerchino di correre in anticipo ai ripari; e a tal proposito, il giudizio di Dovis è netto: “Questo senso di smarrimento – spiega – è in gran parte dovuto all’incoscienza della nostra classe politica. Ancora oggi continuiamo ad assistere a un susseguirsi di voci, riconducibili a partiti, opinion leader e a membri del governo, che ci annunciano che questa crisi è assolutamente contingente, che passerà, che ‘siamo quasi al di la del tunnel’. Discorsi di questo tipo sono quantomeno irresponsabili, perché hanno indotto i cittadini a credere che bastasse stringere la cinghia per qualche tempo, aspettando che le cose tornassero come prima. Le migliaia di sfratti in corso, a Torino come in altre città d’Italia,’ sono la diretta conseguenza di una grave forma d’irresponsabilità politica”.

Secondo Dovis, quindi, con una diversa informazione molti cittadini si sarebbero mossi in anticipo. “Avrebbero potuto rinegoziare immediatamente i loro contratti d’affitto” chiarisce “cercando di ottenere degli sconti sul canone pattuito o rateizzandolo in modo diverso. Quando gli inquilini arrivano a capire che si possono fare cose del genere, di solito è già troppo tardi: il procedimento di sfratto è imminente, quando non è già in corso”.

C’è poi la questione dei mutui, che mette gli inquilini di fronte “alla rigidità di un sistema creditizio che non prevede molte facilitazioni”. “Ma, anche in questi casi – prosegue - il problema è che non si corre precocemente ai ripari, andando, dove possibile, a rinegoziare il tasso. Anche riguardo al blocco delle rate, disposto con la penultima legge di stabilità, la comunicazione non è stata molto chiara: in molti non avevano ben capito che avrebbero comunque dovuto continuare a pagare gli interessi sulle rate bloccate. Che, per l’appunto, sono bloccate, non azzerate: dall’anno prossimo, chi ha beneficiato del blocco dovrà ricominciare a pagare. Nel frattempo, però, c’è un mercato del lavoro che non dà segni di ripresa; così, una grossa parte della popolazione si troverà a dover pagare il vecchio e il nuovo, mentre continua a fronteggiare una situazione di disoccupazione o di estrema difficoltà. Questo rischia di creare un nuovo fronte nell’emergenza casa; che a Torino andrebbe ad aggiungersi a quello che si è aperto in questi giorni, e che sta colpendo gli inquilini delle case popolari”.

La questione alla quale fa riferimento Dovis prende origine da una legge regionale del 2010, che ha rivisto i criteri per l’adesione al Fondo sociale regionale, destinato a integrare una parte dell’affitto per i residenti nelle case popolari che siano stati colpiti da licenziamenti o cassa integrazione. “In sostanza – precisa il direttore – quella legge ha stabilito che i beneficiari devono contribuire al fondo con una quota parte che varia da un minimo di 480 euro, e che si assesta, nella maggior parte dei casi, attorno al 14 per cento del reddito familiare lordo. Il problema è che il reddito è stato conteggiato nell’anno precedente all’assegnazione: vale a dire, quasi sempre, prima del licenziamento, risultando del tutto falsato. Parliamo di nuclei familiari con figli a carico e un reddito prossimo allo zero, che si sono trovati nell’impossibilità di pagare un contributo annuo di 480 euro. O di madri single, che magari lavoravano in una cooperativa sociale, che devono pagare quote che arrivano fino ai 1.100 euro”. Nei giorni scorsi 4.400 lettere sono partite dall’Agenzia territoriale per la casa, che intima ai residenti delle case popolari di saldare gli arretrati sul contributo al Fondo regionale, pena l’apertura del procedimento di decadenza (che, in soldoni, equivale a uno sfratto eseguito in tempi molto brevi). “Il rischio” chiarisce Dovis “è che altre 4 mila famiglie si riversino in strada nel periodo più freddo dell’anno, quello che va da gennaio a marzo”. Non credo ci sia da scherzare con un’eventualità del genere” .

“Di fronte a una simile emergenza” continua “le soluzioni ‘tampone’ non possono più funzionare. Con le famiglie che si rivolgono alla Caritas, stiamo cercando di agire preventivamente. Con una serie di parrocchie, cerchiamo di sostenere il loro reddito, in modo che possano pagare l’affitto e non vengano sfrattate; e, in alcuni casi, cerchiamo anche di mediare con i padroni di casa. Per quanto riguarda le emergenze, purtroppo non abbiamo un patrimonio finanziario o immobiliare che ci permetta di intervenire su numeri così elevati. Stiamo costruendo una rete tra gli enti pubblici e tutte quelle realtà private che possono mettere a disposizione degli alloggi; che vengono utilizzati per dare ospitalità alle famiglie che hanno già ottenuto un’abitazione d’emergenza, ma che non possono ancora accedervi. In questo modo, i nuclei familiari non sono costretti a dividersi, come spesso accade”.

“Queste però sono soluzioni palliative” conclude Dovis. “Siamo palesemente di fronte a un problema strutturale, che andrebbe analizzato e compreso a un livello altrettanto strutturale. Servirebbe un piano casa che stabilisse che gli alloggi di edilizia popolare devono essere utilizzati soltanto dalle fasce di popolazione in difficoltà; e che sancisca che queste ultime, qualora riescano a superare dette difficoltà, debbano lasciarli liberi, rivolgendosi al mercato privato. Il quale deve essere a sua volta calmierato, adeguando i canoni ai salari, perché nessuno può passare da 80 a 800 euro di affitto mensile. In questo modo si verrebbe a creare un turnover virtuoso, che andrebbe a snellire delle liste d’attesa che oggi sono assolutamente intasate”. (ams)

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