11 marzo 2013 ore: 13:00
Società

Fra i magazzini cinesi di Roma Est, la “Grande Pagoda” per il culto buddista

E’ seminascosta fra i capannoni che costeggiano il Raccordo e la via Prenestina: il secondo più importante tempio buddista d’Italia sarà inaugurato il 31 marzo. Ma ogni domenica è già meta delle celebrazioni dei fedeli
ROMA - Seminascosta tra i capannoni, in un angolo di cemento e lamiere tra il Grande Raccordo Anulare e la via Prenestina, si erge maestosa la Grande Pagoda cinese. Se non fosse per l’inconfondibile tetto a falde spioventi dalle volute arricciate, la si potrebbe scambiare per uno dei tanti magazzini all’ingrosso della zona, quasi tutti di proprietà cinese: è questo, infatti, il polmone del commercio made in China nella capitale. Con un’avanzata inarrestabile, fatta di offerte d’acquisto vantaggiose e concorrenza a prezzi bassi, molti imprenditori cinesi hanno stabilito qui il loro quartier generale riuscendo nel giro di poco ad espandersi, tanto che oggi un terzo dei 250 proprietari degli stabilimenti della zona parla cinese. E non a caso, ovviamente, è stato scelto questo luogo vicino alla comunità per costruire il primo grande tempio buddhista cinese di Roma, il secondo in Italia dopo quello di Prato.
 
Appena varcata la soglia del tempio sembra di entrare in un altro mondo: è come compiere un viaggio lontano, restando qui. Ad accogliere il visitatore due grandi statue di leone dall’aspetto terrifico. Sono i dharmapāla, i guardiani del tempio, che, nella tradizione buddhista, hanno il compito di difendere il Dharma, cioè la dottrina, la legge. Fino a che non verrà inaugurato al pubblico con una solenne cerimonia il prossimo 31 marzo, i due leoni resteranno bendati: solo con l’apertura ufficiale saranno rimossi i veli rossi che hanno sugli occhi e inizieranno a svolgere il loro compito difensivo. Stessa sorte spetta all’insegna che reca il nome proprio del tempio, chiamato “Tempio Italia-Cina”, coperta ancora da un drappo rosso. All’interno ogni oggetto ha un significato e rispecchia la tradizione secondo quella versione del Buddhismo che è la più diffusa in Cina, e cioè la dottrina Mahayana Chán (l’equivalente dello Zen giapponese).
 
Ci sono voluti cinque anni per costruire il tempio grazie alle donazioni della comunità immigrata cinese di Roma e con il contributo diretto di fondi provenienti dai monasteri cinesi. Pur non essendo stato ancora inaugurato, il Tempio Italia-Cina è già luogo di culto per la comunità cinese e ogni domenica qui si svolge il rito della preghiera collettiva. Si tratta di una lunga cerimonia di recitazione di canti di preghiera scanditi dal suono grave dei tamburi e dal tintinnio argentino di alcune campanelle. A officiare il rito è una delle quattro monache taiwanesi che abitano nel tempio: è lei che dà il via ai mantra dal ritmo sempre più veloce, che i fedeli seguono salmodiando a voce alta con un tono quasi ipnotico. Tutti indossano una tunica nera lunga fino ai piedi in segno di sobrietà e di uniformità, ad eccezione della monaca che amministra il culto che, invece, indossa il kesa, una sorta di toga color zafferano che anticamente era composta di pezzi di stoffa rimediati qua e là grazie alle offerte dei fedeli, poiché al monaco, obbligato all’osservanza del voto di povertà, era consentito possedere solo una ciotola per il cibo e le elemosine.
 
Momento culminante della preghiera, che oltre ai canti prevede ben 88 genuflessioni in segno di rispetto, è l’offerta di incenso al Buddha Śākyamuni, la cui statua dorata si erge al centro dell’altare. Ci si avvicina a mani giunte, ci si inchina, ci si inginocchia, si prende un pezzetto di incenso e, dopo averlo accostato alla fronte, lo si depone in un braciere posto di fronte all’altare. Accanto alla statua di Śākyamuni trovano posto altri due simulacri: uno è il Bodhisattva Avalokiteshvara, il Buddha della Compassione, e l’altro il Bodhisattva Ksitigarbha, l’utero della terra, colui che non vuole raggiungere il risveglio finché tutti non avranno raggiunto la salvezza e saranno liberati dall’inferno. Tutte intorno a queste tre grandi statue, custodite in piccole teche dalla forma rotonda, trovano posto tante statuine di guanyin, bodhisattva dal significato simile a quello della grande compassione ma dalle sembianze femminili (tanto che dai primi missionari cristiani in Cina, come Matteo Ricci, sono state associate alla figura della Madonna con il bambino). Ogni guanyin è offerta da una famiglia cinese assieme alle donazioni: è una divinità protettrice del nucleo familiare, una sorta di nume tutelare, ed è anche un segno tangibile del contributo che ogni famiglia dà alla gestione del tempio. La fine della cerimonia di preghiera è segnata dal pranzo collettivo che viene offerto a tutti i presenti: ci si riunisce in un’altra sala e, accompagnati dalle benedizioni delle monache, si consuma tutti insieme un pasto vegetariano utilizzando rigorosamente le bacchette. (vedi lanci successivi) (Giulia Lo Giudice)
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