Nasce la prima scuola per imparare a gestire i beni comuni
ROMA - Una scuola per imparare a gestire i beni comuni: è stata presentata oggi Sibec, promossa da Euricse (Istituto Europeo di Ricerca sull'Impresa Cooperativa e Sociale), associazione Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà) e Università degli Studi di Trento. Il primo corso inizierà a febbraio, “Ieri abbiamo messo per la prima volta online il sito per prova, e avevamo già due iscritti – racconta Paolo Fontano di Euricse -, segno del grande interesse. Ma il corso è solo il primo tassello di un percorso formativo insieme a tutti i soggetti interessati, per creare una cultura comune in cui ognuno è portatore di esperienze diverse. Funzionerà se diventerà essa stessa un bene comune”. La presentazione dell'iniziativa è stata l'occasione per fare il punto sulla nozione stessa di “bene comune”, dal punto di vista sociale, economico, giuridico, ma anche per la pubblica amministrazione e il volontariato.
“C'è una ripresina della partecipazione sociale – spiega Flaviano Zandonai, di Euricse -, dopo un triennio di riduzione. A trainare è sopratutto il nord e gli over 60, e bisogna pensare a come coinvolgere i giovani che sono il futuro. Dai dati sui consumi del Rapporto Coop 2015 vediamo che la sostenibilità ambientale, etica e sociale sta diventando mainstream, fino a condizionare le scelte nei consumi. Questa scuola può essere 'popolare', nel senso di coinvolgere fasce sempre più ampie di popolazione, che da un'indagine Swg si dimostra sempre più interessata a un nuovo paradigma economico, fondato sulla condivisione e sulla cooperazione: lo si vede anche nei tanti esempi pratici, dalla gestione dei beni confiscati agli spazi delle ex ferrovie ai casi di recupero di relitti del'900”.
“C'è un grande, crescente interesse per il tema e la cura dei beni comuni – spiega Gregorio Arena, presidente di Labsus, introducendo l'argomento -: nella storica divisione tra pubblico è privato si è sempre pensato che siano i proprietari a prendersi cura dei beni, la garanzia dell'egoismo contro il logorio di chi consuma, la scissione fra proprietà e uso. Nel volontariato ci si prende cura anche di chi non appartiene al nostro nucleo familiare. I cittadini attivi si prendono cura dei beni di tutti come se fossero propri, facendo leva sulla responsabilità, nel senso di dare risposte a un problema, sulla solidarietà, per vivere meglio nel proprio ambiente, sull'autonomia, cioè sull'attivarsi direttamente di fronte ai problemi, contrapposti all'indifferenza, all'egoismo e alla passività”. Il “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” approvato dal comune di Bologna dopo una collaborazione con Labsus è stato ora approvato e dai consigli di 65 comuni e altri 82 lo stanno adottando.
Arena fa risalire all'800 e alla nascita della pubblica amministrazione, che deve curare i beni di tutti, questa progressiva deresponsabilizzazione , attraverso lo sviluppo della proprietà privata, del principio di delega e di rappresentanza, che fa dire ai cittadini “Io pago le tasse, perché dovrei occuparmene?”. Carmelo Di Marco, presidente di Federnotai, spiega che fino a pochi secoli fa i beni comuni erano un dato noto giuridicamente, in mezzo fra la nozione di proprietà pubblica e privata, quello per cui i contadini raccoglievano legna e cacciavano nelle terre dei nobili. “Poi, con la nascita degli stati nazionali, questa categoria è stata esclusa, anche se il legislatore inizia a muoversi e ci sono progetti di riforma del codice civile per reintrodurla. Nella disciplina c'è già un cambiamento in atto, con lo spostamento dell'interessa dalla proprietà al godimento”.
Con l'articolo 118 della Costituzione è stato introdotto il concetto di sussidiarietà, “la piattaforma di incontro fra pubblica amministrazione, volontari e cittadini attivi – aggiunge il presidente di Labsus -, dietro a un bene comune c'è una comunità, che permette il pieno sviluppo della persona. “I cittadini attivi costringono la pubblica amministrazione a uscire dall'autoreferenzialità, e a imparare a usare l'apporto di competenze, conoscenza del territorio per il benessere di tutti. Non deve essere un ritrarsi del pubblico davanti all'iniziativa privata, ma un patto di collaborazione, in cui bisogna eseere preparati, per questo è utile una scuola di formazione”.
Gianluca Salvatori, di Euricse, racconta attraverso i numeri l'espansione di questo campo di azione, che coinvolge ormai un milione di addetti, 100 mila organizzazioni e 5-6 milioni di utenti. “La novità è che non riguarda più solo spazi intersiziali, ma affronta bisogni nuovi, così come gli spazi abbandonati nelle città una volta erano residuali, e oggi sono le grandi aree del passato produttivo. Non siamo 'benicomunisti', abbiamo un approccio empirico, la scuola sarà il luogo dove imparare ad affrontare i problemi che emergono lì”.
Gianni Ferrero, funzionario del comune di Torino, sottolinea come questa trasformazione di paradigma rappresenti una sfida per le istituzioni locali, che devono trovare il proprio ruolo, affrontando anche i nodi complessi rispetto alla gestione classica: la difficoltà di inquadrare la gestione di un bene a un gruppo di cittadini quando l'orientamento giuridico è verso la concorrenza di mercato, cioè la gara d'appalto, la questione delle responsabilità e delle assicurazioni, la formazione alla complessità nel rapposto fra cittadini e pubblica amministrazione. Anche Piercito Galeone, di Anci, spiega le difficoltà nel ripensare la sfera pubblica: “Dagli anni '70 i problemi della sfera sociale si sono trasformati in questioni politiche con risposte istituzionali, ma non sempre può funzionare così. C'è una trasformazione nella modalità di partecipazione politica, la 'social innovation' ha alleggerito il welfare e ha trovato anche soluzioni più efficaci, ma questo comporta problemi nell'identificazione del bene, nella partnership fra pubblico e privato”.
Aldo Patruno, dell'Agenzia del Demanio, aggiunge la necessità di dotarsi di strumenti di valutazione diversi, anche dal punto di vista economico: “Nella valutazione del Pil manca l'impatto sociale, non solo per una condivisibile questione etica, ma anche prettamente economica. Gran parte del patrimonio è già stato dismesso, ma di ciò che resta l'80% delle aste va deserta. Non basta pensare di dismettere un'area industriale, o le case cantoniere, dobbiamo chiederci poi come li gestiamo, che cosa ne facciamo”.
Roberto Museo, direttore CSVnet, analizza la questione dal punto di vista del volontariato, schiacciato da una riforma del Terzo settore volta soprattutto alle imprese e che enti locali che rischiano di considerarlo “manovalanza a costo zero, tappabuchi di situazioni ingestibili”. “È un volontariato liquido, non inquadrato, che si espande in tutte le forme, col rischio di essere marginalizzato. La gestione degli spazi non va analizzata solo con le planimetrie, ma anche nella dimensione della gratuità, della capacità di generare capitale sociale”.
Il primo corso sarà diviso in quattro moduli in quattro città diverse (Milano, Caserta, Firenze, Lecce), rivolti ai funzionari delle pubbliche amministrazioni e ai “professionisti”, del profit e non profit. “Le docenze frontali saranno il minimo indispensabile – spega Fontano -, privilegiando lo scambio di esperienze. Ci sarà un curatore del modulo, il docente, un facilitatore, che aiuterà a tradurre in esempi concreti quanto analizzato teoricamente, “una antenna locale”, che porterà le esperienze locali e alla visita aziendale. Si analizzerà cosa sono i beni comuni dal punto di vista giuridico e sciologico, il modo di trasformare i costi in risorse, non solo economiche, la sostenibilità economica e gli sviluppi sociali, e l'orizzonte di lungo periodo dei progetti. “Sarà un laboratorio itinerante, in cui la pratica insegna alla teoria”.