12 aprile 2010 ore: 16:45
Immigrazione

Romeni in Italia, seconda generazione "rifiutata"

A Sidney la Transcultural Mapping Conference. Katherine Hepworth (University of Technology) per un anno ha seguito le tracce degli immigrati romeni in Italia: "Il paradosso è che parlano perfettamente l’italiano e il dialetto del luogo dove vivono"
Roberto Arcari/Contrasto Romeni mangiano sulle scale

Romeni mangiano sulle scale

Sydney - Quanto sono obsoleti i confini geografici e politici per definire un contesto sociale? Quanto sono inadeguate le categorie culturali che ne derivano? E’ necessario ripensare la propria identità in relazione con l’altro, con lo straniero, in un mondo che parallelamente alla crescita della globalizzazione economica registra un aumento rilevante dei flussi migratori? Queste domande se le pongono da anni gli oltre 60 studiosi riuniti lo scorso fine settimana a Sydney per la Transcultural Mapping Conference, nel tentativo di individuare dei percorsi plausibili, almeno dal punto di vista teorico. Secondo Gaia Giuliani dell’università di Bologna, tra i numerosi ricercatori italiani venuti a presentare i propri lavori, dalla Conferenza emerge chiaramente la volontà di superare “molte categorie di classificazione culturale ormai stantie e statiche”. A questo genere appartengono le classificazioni religiose o quelle etniche. “Cosa significa etnico?” chiede provocatoriamente Giuliani. “Nulla, è solo un espediente semantico per non dire negro o diverso”.

Nonostante alcuni stereotipi come quello della superiorità razziale si siano addirittura rafforzati nel passato recente, la mappatura dei flussi, incominciata a tracciare a Sydney, rivela come in realtà sia in corso l’estensione del concetto di cittadinanza. Antonella Biscaro, della University of Technology Sydney sta focalizzando i propri studi in questo settore: “Non parliamo di cittadinanza in senso stretto", chiarisce subito la ricercatrice. Ovvero non riguarda l’acquisizione di diritti di status da parte degli emigranti. Però è vero che tutti gli emigranti portano con sé dai paesi di origine storie, vissuti e soprattutto legami. “Infatti le Nazioni Unite danno molta importanza al contributo economico che gli emigrati producono per i paesi di origine”. Dalle classiche rimesse per i paesi in via di sviluppo all’imprenditoria ‘etnica’, gli emigranti sono sempre più spesso visti come ‘risorsa’, come punti di riferimento utili a estendere l’influenza economica dei paesi di provenienza. “In questo senso - dichiara Biscaro - la cittadinanza di cui parliamo si avvicina molto all’idea di consumatore”.

Tuttavia non mancano i percorsi tortuosi e contradditori. Da un lato sono in aumento i paesi che concedono il diritto di voto ai propri cittadini espatriati da decine di anni o addirittura ai loro discendenti. Dall’altro gli stessi paesi irrigidiscono le rispettive legislazioni nei confronti delle migliaia di immigrati che vivono e lavorano da anni sul loro suolo. Un caso emblematico è l’Italia, secondo Katherine Hepworth della University of Technology di Sydney. Per un anno Hepworth ha seguito le tracce degli immigrati romeni in Italia e ha rilevato come il clima di intimidazioni, restrizioni delle leggi sulla cittadinanza e razzismo crescente contribuisca a creare il senso di non appartenenza e la marginalizzazione degli immigrati. Se la prima generazione di romeni ha vissuto con la paura costante di non riuscire a ottenere i documenti necessari a rimanere in Italia, quella dei figli si vede semplicemente rigettata. Il paradosso, ha spiegato Hepworth nella sua relazione, è che anche se parlano perfettamente l’italiano e il dialetto del luogo dove vivono si devono giustificare, perché c’è sempre qualcuno pronto a stupirsi”.

La chimera del controllo dei flussi migratori non attira solo l’Italia. In uno studio all’università di Bologna, il ricercatore Australiano Damian Spruce, ha scoperto che pur non essendoci state relazioni strette su questi temi tra i due paesi, Italia e Australia hanno adottato le medesime politiche in periodi molto ravvicinati, tra il 2001 e il 2003. Spruce ha comparato la ‘Pacific solution’ con la quale il governo Howard ha rifiutato di accogliere i richiedenti asilo nel periodo 2001-2006 per trasferirli in campi di detenzione installati su piccole isole dell’Oceano Pacifico. Nello stesso periodo il governo Berlusconi ha avviato i colloqui con la Libia per spostare nel Paese nordafricano gli immigrati irregolari. Il punto, afferma Spruce, “è che il vero scopo di queste politiche non è il controllo dell’immigrazione, per altro impossibile con solo queste misure, bensì il controllo del consenso. Entrambi i governi avevano bisogno di dare una risposta mediaticamente efficace”. (vedi lancio successivo) (s.cam.)
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