Viaggio a Cavezzo, paese distrutto: gli stranieri sfollati pensano di andarsene
La gente ha paura. Dormono in macchina, nelle tende piantate nei parchi e nei giardini. E tra gli sfollati del Palaverde sono in molti quelli che hanno dormito all’esterno della struttura, anziché dentro. “Solo io e i miei 2 figli abbiamo dormito dentro il palasport – racconta Naari Mongi – mentre tutti gli altri sono rimasti fuori”. Mongi è tunisino ed è in Italia con la moglie e i 4 figli di 20, 19, 11 e 8 anni. “Mia moglie adesso è in Tunisia con i 2 figli più piccoli – dice – Dovrebbe tornare il 15 giugno ma le ho detto di restare là: se trovassi un biglietto per la Tunisia ci manderei almeno i miei figli”. Il maggiore lavora in una fabbrica metalmeccanica di San Felice sul Panaro, crollata. Mentre il secondo lavora in campagna ma “il proprietario della terra ha abbandonato i campi e adesso non c’è lavoro per lui”. Mongi e la sua famiglia abitano in un appartamento al terzo piano di un palazzo dichiarato inagibile dopo le scosse del 29 maggio. “Siamo rimasti lì dopo il primo terremoto – racconta – C’erano solo alcune crepe, ma dopo quello di ieri non potevamo restare: avevamo paura”. Anche N’heri Belgacem, tunisino di 38 anni, è stato accolto al Palaverde. Da 12 anni in Italia, Belgacem è elettricista ma in questo momento è in cassa integrazione. Alle 9 di ieri mattina si trovava su un’impalcatura al secondo piano di una casa per rimuovere le tegole che si erano staccate dal tetto. “Stavo aiutando un amico – dice – e quando c’è stata la scossa ho visto il muro che mi cadeva addosso: mi sono buttato dal ponteggio”. Portato a Bologna per essere medicato, Belgacem ha un braccio ingessato e alcune escoriazioni sul volto. “Sabato parto per la Tunisia – spiega – Mia moglie era partita prima del terremoto: rimarremo là finché la situazione non si sistema”.
Nonostante sia tra i centri più colpiti, Cavezzo non è un paese fantasma. C’è movimento, gente che gira per le strade. Sono molti i volontari giunti dai paesi vicini o anche da più lontano per dare una mano. Come Sara (il nome è inventato), una giovane di Motta (frazione di Cavezzo) arrivata qui ieri per capire cosa poteva fare per la casa in cui abita con i genitori: è lesionata e ora stanno dormendo in tenda. “Appena arrivata ho visto che c’era chi stava peggio di me – dice – e sono rimasta per dare una mano”. E poi c’è la Protezione Civile che sta allestendo i servizi nei campi improvvisati nei parchi, le Guardie Forestali arrivate da Piacenza e gli stessi abitanti di Cavezzo che si rimboccano le maniche per mettere a posto le cose. C’è chi scarica casse di acqua e chi dà una mano a preparare e distribuire i quasi 500 pasti che vengono dati agli sfollati del Palaverde. Si cerca, insomma, di tornare alla normalità. Molti si ritrovano al bar di piazza Fratelli Cervi, una delle poche attività rimaste aperte in uno dei pochi edifici non transennati del paese. È l’unico punto in cui c’è una sorta di seminormalità. (erica ferrari – corrispondenza raccolta da laura pasotti)