Petrolio in Ecuador, la lotta degli indigeni contro l’Agip
Il problema, spiega, si chiama petrolio. Perché la principale risorsa economica dell’Ecuador vuol dire anche inquinamento ambientale e perdita delle culture indigene. E, da trent’anni, ha aperto la strada ai nuovi colonizzatori: le compagnie petrolifere straniere.
Il primo pozzo petrolifero in Ecuador risale al 1911, ma è nel 1967 che Texaco scava il primo pozzo per uno sfruttamento commerciale in Amazzonia. Nel 1972 realizza i 498 chilometri del Sistema de Oleoducto Trans Ecuatoriano (Sote). Fino al 1990 la compagnia americana ha estratto l’88% della produzione nazionale di petrolio, ha perforato 399 pozzi e costruito 22 stazioni di perforazione. Una maggiore apertura alle multinazionali è del 1982. Oggi nel Paese operano 15 consorzi: lo statale Petroecuador, due privati nazionali e 12 stranieri. Il petrolio rappresenta oltre un terzo dell’export con 1,3 miliardi di dollari su 4,4 totali.
Adesso il nemico numero uno della provincia di Pastaza e di tutto l’Ecuador si chiama Agip. Perché l’azienda italiana - che fa capo al gruppo Eni - sta estraendo petrolio dall’unico bloque assegnato per ora nella provincia amazzonica e perché proprio Agip guida il consorzio che a breve costruirà un nuovo oleodotto. Un mostro che attraverserà l’Ecuador per 500 chilometri per finire la sua corsa in Perù. Costo previsto 1,1 miliardi di dollari, cioè 2.500 miliardi di lire (per fare un paragone: nel 1999 un anno d’export di banane, il secondo prodotto del Paese, valeva 954 milioni di dollari).
Cristina Gualinga lavora con l’associazione Mujeres por la madre tierra, che con l’organizzazione indigena di Pastaza Opip (www.unii.net/opip/intro.html) e l’associazione ambientalista Acción Ecológica (www.ecuanex.net.ec/accion) ha lanciato una campagna contro il nuovo oleodotto e le multinazionali del petrolio.
I bloque, cioè le aree di sfruttamento petrolifero, che il governo ha individuato a Pastaza sono 7. Per ora è attivo solo il bloque 10, gestito fino al 1999 dalla compagnia Arco (gruppo Bp) e da Agip che deteneva il 40%. Poi gli italiani hanno acquistato la quota rimanente e prevedono di aumentare la produzione di greggio dagli odierni 15 mila barili a 40 mila barili al giorno. “Agip ha un’area di 200 ettari -spiega Gualinga - inaccessibile e militarizzata. E un contratto di sfruttamento di 30 anni”. A breve verranno assegnati altri due bloque: “Ma noi vogliamo impedirlo. Il governo è deciso ad assegnarli tutti e sette e se ci sarà resistenza da parte degli indigeni, ha detto, manderà l’esercito”.
L’estrazione petrolifera è all’origine dell’inquinamento dei fiumi della zona, fondamentali per l’economia di sussistenza degli indigeni. Ma mette in pericolo anche le loro tradizioni. Gli uomini che hanno trovato lavoro presso le compagnie petrolifere hanno conosciuto una vita diversa, con stili e valori occidentali. Hanno iniziato a guadagnare denaro - concetto prima sconosciuto - e a spenderlo in beni prodotti fuori dalla comunità. “E il denaro si è portato dietro anche prostituzione e alcolismo”. L’Opip da dieci anni tratta con le compagnie perché agli indigeni resti almeno un parte della ricchezza del loro sottosuolo. “Ma sono stati dieci anni di promesse non mantenute: borse di studio per i giovani, infrastrutture... non abbiamo visto niente di tutto questo”. L’unico risultato concreto è stata la divisione della comunità indigena. La legge dell’Ecuad