Vita indipendente, ecco i nove “miti da sfatare”
ROMA – Sono nove, quelli individuati da Enil, ma probabilmente sono molti di più e chiunque può aiutare a individuarli: sono i “miti da sfatare” sulla vita indipendente. Un’espressione tanto usata ma poco compresa, su cui la sezione italiana del network europeo cerca di fare un po’ di chiarezza. Illustrato dalle vignette di Dave Lupton, l’opuscolo spiega in poche frasi cosa sia realmente la vita indipendente, negando totalmente o in parte ciò che più comunemente viene detto. E per ciascuna frase, fornisce una pagina di approfondimento e spiegazione. Ecco quindi i nove “miti” e le relative “smentite”.
Autosufficienza e indipendenza. “Vivere in modo indipendente significa essere autosufficiente”, recita il mito. Ma la realtà è che “nessuno è autosufficiente. Disabili o non disabili, tutti, prima o poi nella vita, abbiamo bisogno di aiuto da parte degli altri”.
L’indipendenza non è per tutti. “Non tutti possono vivere in modo indipendente. Avremo sempre bisogno delle istituzioni”, dice il mito. In realtà, “Con il giusto supporto, tutti possono vivere nella collettività”.
Vita indipendente e servizi sociali. Dice il mito che “vita indipendente significa non aver alcun contatto con i servizi sociali di sostegno”, ma la verità è che “la vita indipendente non è possibile senza sostegno”.
Vita indipendente è solitudine. “Le persone disabili che decideranno di vivere in modo indipendente saranno solo e isolate”, dice il mito. Ma “vita indipendente non significa che le persone debbano vivere sole, ma significa avere la possibilità di decidere dove e con chi vivere”.
Meglio l’istituto. C’è poi un altro luogo comune, molto diffuso, capace giustificare anche scelte politiche: quello in base a cui “sono troppi i rischi che si associano a uno stile di vita indipendente, per questo è preferibile che le persone disabili vengano accolte in un istituto. I sostegni per la vita indipendente, come ad esempio di budget personali, possono indurre a frodi, trascuratezza o abusi”. Di qui l’opzione, ancora molto diffusa a livello nazionale e finora tutt’altro che superata, dell’istituzionalizzazione. La realtà è però che “è molto più pericoloso vivere in un istituto che nella collettività”.
Case famiglia e centri diurni. Le forme dell’istituzionalizzazione sono tante e diverse: tra queste, le case famiglie e i centri diurni che, pur essendo di grande aiuto per le famiglia, tuttavia in molti casi rappresentano l’unica possibilità di inserimento sociale. Contro il luogo comune per cui “una vita indipendente può essere realizzata grazie alla costruzione di case-famigila e centri diurni per persone disabili”, la realtà è che “le persone disabili vengono spesso inserite in case famiglia e in centri diurni perché non sono disponibili altri tipi di supporto o servizi”.
Troppo costoso. C’è poi la “bufala” dei costi, altro tema “caldo” anche a livello politico. Il fatto che “offrire una possibilità di vita indipendente a tutti” sia “troppo costoso” rappresenta però appunto una “bufala”. E comunque, “vivere indipendente è un diritto umano e nessuno dovrebbe esserne privato in favore del risparmio”. Ammesso, appunto, che l’istituzionalizzazione faccia risparmiare.
Per i bambini, non va bene. Un altro luogo comune è che “il sostegno in forma di vita indipendente , come ad esempio l’assistenza personale, non è adatto ai bambini con disabilità”: Non è vero, perché “l’esperienza dimostra che i bambini o i più giovani, così come le loro famiglie, possono trarre gran beneficio dall’assistenza personale”.
La qualità è incontrollabile. L’ultimo mito riguarda la qualità, che sarebbe “impossibile da controllare nei servizi di supporto alla vita indipendente”. La realtà è che “poiché la vita indipendente permette ai singoli individui di scegliere il sostegno che desiderano ricevere, è molto più probabile che tale supporto risponda meglio alle loro necessità”. (cl)