Il 37% dei comuni di Campania, Puglia, Sicilia e Calabria esposti all’estorsione
Criminalità: racke, pizzo, mani che scambiano soldi
All’iniziativa è intervenuto anche Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, che ha affermato: “Il pizzo è l’Irpef della mafia. Le organizzazioni mafiose senza queste relazioni esterne non campano”. Prestipino ha così concluso: “Abbiamo un solo nemico, non è la ‘ndrangheta, ma siamo noi stessi. Noi dobbiamo iniziare a comunicare e lasciar perdere quelli che dicono che tanto è inutile fare qualcosa contro il racket che tanto non cambierà mai niente”. Tano Grasso, fondatore della prima associazione antiracket nel 1991 a Capo d’Orlando e presidente onorario della Fai (Federazione nazionale associazioni antiracket) ha sottolineato: “Quando nasce una nuova associazione deve nascere bene, con tutti i crismi, senza premura. Bisogna fare attenzione, se i presupposti non sono validi, le associazioni non bisogna crearle”. Tano Grasso ha anche posto l’attenzione su quello che è uno dei limiti delle associazioni, ovvero la scarsa circolazione delle esperienze. “La tragedia – ha commentato - è che gli imprenditori che denunciano attualmente sono l’1%. Siamo ancora una piccola minoranza, la maggioranza non denuncia perché trova convenienza nei meccanismi di acquiescenza, sulla base di un interesse indiretto. La legge sull’obbligo della denuncia – ha evidenziato il presidente onorario della Fai – interviene proprio sul meccanismo della convenienza”. Al seminario il professor Rocco Sciarrone, docente all’Università di Torino, ha illustrato un suo studio scientifico condotto nel mondo dell’imprenditoria che si è trovata ad avere rapporti con la criminalità mafiosa. La ricerca è partita dal mondo imprenditoriale della Piana di Gioia Tauro per poi estendersi in diverse altre regioni, prevalentemente del Mezzogiorno d’Italia. Sciarrone ha delineato le diverse ‘categorie’ di imprenditori a partire da quelli “subordinati” che hanno con i mafiosi una relazione fondata sulla coercizione. Questa classe imprenditoriale agisce all’esterno in maniera statica: accetta di pagare e basta, con la sola garanzia che possa continuare a lavorare. Poi ci sono gli imprenditori “dipendenti”: sono quelli che non sono autonomi sul mercato e che per operare hanno bisogno di fare riferimento alla mafia.
E’ una categoria che è spinta ad adottare un tipo di comportamento anti-imprenditoriale, un atteggiamento che limita l’attività perché compiere nuovi investimenti aumenterebbe le richieste dei mafiosi. Sciarrone è poi passato a delineare la figura dei “collusi”: sono gli imprenditori che stabiliscono rapporti interattivi con i mafiosi, disposti a trovare accordi da cui derivino obblighi reciproci. Quindi una categoria che punta ad un rapporto scambievolmente vantaggioso. Altra categoria è quella degli imprenditori “strumentali” che accettano preventivamente di collaborare con i mafiosi perché pensano che questo legame possa promuovere i loro interessi e far crescere i loro affari. Esistono anche gli imprenditori “clienti” con cui viene definito un rapporto di tipo prettamente clientelare che ha le caratteristiche di essere stabile e continuativo. I mafiosi dagli imprenditori clienti ricevono dei vantaggi: investono nei cosiddetti settori protetti come quello immobiliare; si infiltrano nelle attività illegali che non richiedono particolari abilità manageriali. Tutto ciò scoraggia l’intraprendenza imprenditoriale sana, e alimenta la zona grigia tra vittime e complici da cui la mafia trae giovamento. (Maria Scaramuzzino)