Stella Maglio: “Mio marito? Un visionario”
Maria Stella Calà sull'altare il giorno del matrimonio con Antonio Maglio
Il loro non può dirsi certo un amore giovanile. Quando si sono sposati, infatti, Antonio Maglio, il padre delle Paralimpiadi, aveva quasi 60 anni e veniva da un precedente matrimonio. Maria Stella Calà, invece, di anni ne aveva 40 ed era un funzionario di banca. Forse è proprio per questo loro essere adulti che hanno dato vita a una relazione solida, matura e duratura. Sullo sfondo la Roma del boom economico. A raccontare il dietro le quinte della loro unione, e a svelare l’uomo che si celava dietro il medico dell’Inail, è la stessa Stella, come tutti la chiamano, oggi 81enne. Una donna che non ha mai perso un’occasione per tenere viva la memoria del consorte, scomparso nel 1988, ricordando sempre il ruolo fondamentale che egli ha ricoperto nella storia dello sport per le persone con disabilità.
Stella, come vi siete conosciuti?
“A dire la verità, Antonio e io ci conoscevamo da sempre perché abitavamo nello stesso palazzo. Quindi mi ha visto crescere. Un giorno, tornando dalla settimana bianca a Cortina, lo incontro nell’ascensore e mi dice: ‘Stella, ti sei fatta bella, come mai non ti sei sposata?’. Io rispondo dicendo che non avevo ancora trovato nessuno con cui condividere la vita. Non volevo figli, volevo semplicemente un compagno, una persona per cui provare un’empatia reciproca. Così lui mi fa: ‘Allora quando ci vediamo? Domani alle 17?’. L’indomani, però, io ebbi un contrattempo e non riuscii ad andare all’appuntamento. Rimandammo al giorno dopo, alla stessa ora, ma con l’imperativo che, se non mi fossi presentata, lui non mi avrebbe più cercata. Arrivai con un’ora di anticipo”.
Com’era il dottor Maglio nella vita privata?
“Il marito, l’uomo e il medico erano la stessa cosa. Era amorevole, rispettoso, generoso, ma esigente. Amava la libertà e, per questo, sapeva concederla anche agli altri, me compresa. Credeva nella centralità della persona, nella famiglia nel senso più ampio del termine e nella scienza. Inoltre sapeva infondere una grande sicurezza. Era una di quelle persone pulite e buone su cui potevi contare sempre, anche quando non parlava. Io l’ho sempre ammirato per questo, anche prima di sposarlo. Però non è stato semplice stargli vicino: ha dato tutto se stesso al Centro Paraplegici Inail di Ostia e ai suoi ragazzi. Se qualcuno stava male, rimaneva a dormire là. Quando tornava dal Cpo, invece, gli piaceva guardare lo sport in tv e la domenica si andava spesso a mangiare ai Castelli insieme ai suoi pazienti e ai suoi atleti. Erano come figli per lui”.
È il motivo per cui non ne avete avuti?
“No, la ragione non è stata quella. Antonio volle lasciare la scelta a me. E io, vista l’età, che per l’epoca era considerevole, ebbi paura e non me la sentii di cercare una gravidanza”.
Ricorda qualche litigio particolare con lui?
“Non abbiamo mai litigato seriamente, sempre solo discusso. Era un uomo abbastanza accomodante. Però non voleva mai andare in montagna d’inverno, diceva che non gli piaceva. Io me ne rammaricavo, insistevo, ma poi cedevo. Ma una volta insistetti troppo e litigammo. E finalmente seppi il perché: durante la guerra era stato un alpino e nel candore della neve vedeva ancora il sangue dei suoi commilitoni”.
Dopo la morte di Antonio Maglio lei ha sempre cercato di mantenere viva la memoria di suo marito.
“Sì, perché nel suo lavoro era stato un uomo lungimirante, nonché un pioniere. All’epoca non esisteva il concetto di riabilitazione per chi aveva una lesione midollare, mentre lui parlava già di presa in carico dei pazienti, di terapia occupazionale, di reinserimento socio-lavorativo, di ausili, di importanza dell’affettività e della sessualità, di ricerca scientifica, di uguaglianza pur nel rispetto delle diverse condizioni. Inoltre dava molta importanza alla sfera psicofisica, allo spirito di comunità, al recupero dell’autostima e al rinforzo della muscolatura. Da qui all’applicazione della sport-terapia il passo è stato breve, soprattutto dopo aver conosciuto il dottor Guttmann, il suo lavoro in Inghilterra e i Giochi sportivi per persone disabili di Stoke Mandeville. Così gli infortunati sul lavoro divennero atleti. Ma fu su proposta di Antonio che decisero di portare quei Giochi a Roma, nel 1960, visto che nella Capitale, proprio quell’anno, si tenevano già le Olimpiadi. Partirono da zero e diedero vita alle prime Paralimpiadi della storia. E io ho sempre voluto rendere omaggio proprio alla storia e a quei ragazzi e a quelle ragazze che si sono dati anima e corpo allo sport in carrozzina grazie all’Inail. Perché è importante prima di tutto ricordare, per capire come si è arrivati a quelli che sono i Giochi paralimpici oggi. La storia è anche una missione educativa e culturale: per questo sono molto grata al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per i meriti riconosciuti a mio marito”.
La fiction Rai “A muso duro” le è piaciuta?
“Sì, sono stata molto contenta del film, anche perché va proprio nell’ottica della memoria paralimpica. E poi ho rivissuto le emozioni con una cognizione di causa molto più profonda. Del Centro Paraplegici di Ostia, io molte cose non le sapevo perché mio marito non me le diceva: prima le scoprivo dai suoi ragazzi, poi le ho scoperte dal libro dell’Inail Senza barriere e ora dalla fiction Rai”.
(L’intervista è tratta dal numero di maggio di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)