Detenuti disabili, tra barriere e vecchi ausili: ecco cosa sta cambiando
ROMA – Quando hanno i requisiti per accedere alle misure alternative non sempre possono uscire dal carcere, perché fuori non ci sono strutture in grado di fornire loro la necessaria assistenza, devono fare i conti quotidianamente con celle ed ambienti non del tutto idonei a garantire una vivibilità accettabile e in qualche caso accedono a fatica alla presa in carico da parte del servizio sanitario nazionale perché sprovvisti di documenti di residenza e conseguente Asl di riferimento. Nella maggioranza dei casi, al momento della liberazione, non riescono a beneficiare di una continuità terapeutica mentre i caregiver (detenuti incaricati di seguire e prendersi cura dei compagni disabili in carcere) non sempre hanno una formazione specifica. E’ la condizione dei detenuti con disabilità ristretti nelle carceri italiane.
- Sono 628, secondo l’ultimo censimento del Dap (agosto 2015): 528 italiani (26 donne) e 100 stranieri (8 donne), distribuiti in 16 regioni. 191 di loro (18 donne) hanno difficoltà ad affrontare le comuni azioni della vita quotidiana: lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, avere cura della persona, sedersi, alzarsi dal letto e dalla sedia. 153 (5 donne) hanno difficoltà nella mobilità corporea (ad esempio a uno degli arti). 232 (11 donne) hanno problemi di locomozione. 52 (1 donna) hanno difficoltà nella comunicazione: vedere, sentire, parlare.
I problemi legati alla detenzione di queste persone sono stati al centro di 4 condanne arrivate all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per trattamento inumano e degradante, ma la situazione sta cambiando: una serie di buone prassi avviate nel 2012 in modo sperimentale in alcuni istituti hanno dato ottimi risultati e adesso, con una recente circolare, il Dap sta cercando di riformare e uniformare tutto il sistema penitenziario sulla scorta dei risultati raggiunti. La sfida di un carcere a misura di disabile passa, secondo Paola Montesanti, direttore dell’Ufficio IV “Servizi sanitari”, della direzione generale detenuti e trattamento del Dap, attraverso interventi personalizzati, territorialità della pena e la formazione di detenuti in grado di prendersi cura di compagni di cella disabili (caregiver). Tra i primi passi in questa direzione la definizione di sistemi di informazione tempestiva sugli ingressi in carcere e di monitoraggio permanente delle presenze.
In Italia sono 7 su 193 le carceri con reparti dedicati ai detenuti disabili; in molti altri sono disponibili celle con “ridotte barriere architettoniche”. Ma spesso le “barriere” sono anche fuori dal carcere: difficile ad esempio accedere alle misure alternative anche quando se ne avrebbero i requisiti perché non ci sono strutture adeguate nelle città come denuncia da tempo Emanuele Goddi, della cooperativa Pid (Pronto Intervento Disagio) secondo cui c’è “assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio”. (Teresa Valiani)