12 settembre 2023 ore: 14:14
Società

La violenza di genere e l'alibi della cultura: “Pericoloso precedente”

di Chiara Ludovisi
Intervista a Flavia Brevi (Fondazione Libellula) sul caso del pm di Brescia: “Confidiamo che la sentenza applichi la legge, che non prevede attenuanti di fronte a una violenza. Troppi alibi di fronte alle violenze: se non è la cultura, è la condotta promiscua o il contesto sociale. Servono formazione, responsabilità collettiva e la consapevolezza che siamo di fronte a un'emergenza”
Violenza donne, aiuto, femminicidi, depressione, salute

ROMA - “Nessun alibi per la violenza: la cultura serve per contrastare la violenza di genere, non certo per giustificarla”: così Flavia Brevi, della Fondazione Libellula, impegnata a Milano nella prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne, commenta la richiesta del pm di Brescia, che ha chiesto l'assoluzione per l'ex marito della donna nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha trovato il coraggio di denunciare i maltrattamenti subiti dall'uomo. Secondo il pm, “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell'odierno imputato sono il frutto dell'impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l'uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”. Non solo: “Le condotte dell'uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l'ha condotta ad interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l'imputato si è fatto fieramente latore”.

Critica e preoccupata la Flavia Brevi, interpellata da Redattore Sociale: “Sono state usate due parole che a noi stanno particolarmente a cuore: violenza e cultura. La violenza di genere è certamente intrecciata con la cultura, perché si previene e si contrasta la violenza anche con la cultura, non invece per usare la cultura come alibi. Giustificare la violenza con la cultura significa deresponsabilizzare l'uomo, disincentivare chi vuole denunciare e vanificare il lavoro quotidiano di chi, come noi, agisce proprio sulla e attraverso la cultura. Perché anche la cultura italiana è discriminatoria – sottolinea Brevi – e non c'è ambiente che sia scevro dalla discriminazione di genere, nemmeno i tribunali. Per questo agiamo sulla cultura, entrando nelle aziende, nelle scuole, nelle famiglie. Al tempo stesso, dobbiamo far sentire che c'è una rete di protezione: per questo, chi ha una responsabilità pubblica deve essere accogliente verso chi denuncia e nessuno mai deve sentirsi giustificato per una violenza che ha commesso.

Questa richiesta del pm può essere un pericoloso precedente, in una società sempre più multiculturale?
Certamente sì: il messaggio che è stato trasmesso è pericoloso e ci preoccupa. Confidiamo nella sentenza e speriamo che sia applicata la legge italiana, che non precede alcuna attenuante per motivazioni culturali.
La “giustificazione” della violenza avviene però anche nella cultura italiana. Pensiamo anche ai gravi casi recenti, da Palermo a Caivano, dove pure qualche “alibi” si è in qualche modo cercato...
Si, è così: quasi sempre, di fronte a una violenza di genere, si cerca una motivazione che giustifichi o almeno renda più leggera la colpa di chi ha commesso violenza: che siano i comportamenti promiscui della donna, o il contesto sociale di provenienza, o altri motivi. Dobbiamo ribadire con forza che non ci sono alibi per la violenza di genere. Per questo, è importante che questa consapevolezza sia forte soprattutto tra chi accoglie le denunce: agli ospedali, alle forze dell'ordine, ai tribunali.

Il caso della donna del Bangladesh sta facendo discutere, soprattutto per le argomentazioni scritte dal pm. Ma quanto è difficile, per una donna vittima di violenza, ottenere giustizia dopo una denuncia, a prescindere dalla propria cultura?
E' molto difficile. Nel nostro immaginario, la donna che subisce una violenza, immediatamente denuncia e, se ha fatto tutto bene, la sua denuncia viene subito accolta. Non è mai così nella realtà: il percorso che porta dalla violenza alla denuncia e poi alla risoluzione non è lineare ed è fatto di ripensamenti, dubbi, paure e pressioni sociali. Occorre accompagnare la donna che denuncia e sentire ciascuno la propria responsabilità. Per questo è fondamentale che sul territorio ci siano spazi accoglienti, aperti, in cui il personale sappia ascoltare e orientare, grazie a un'adeguata formazione e a un continuo aggiornamento. Dobbiamo essere consapevoli che la responsabilità della violenza è collettiva e ciascuno, nel proprio contesto, può contribuire a contrastarla.

E le istituzioni?
Devono certamente fare la propria parte, innanzitutto prendendo atto che la violenza di genere è una vera emergenza. Più attendiamo, più restiamo in silenzio, più addossiamo la responsabilità alla donna e più procrastiniamo la soluzione. Possiamo non sentirci complici, se non stiamo facendo niente?

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