9 gennaio 2016 ore: 12:13
Immigrazione

Reato di clandestinità, Del Grande: fiasco totale, anche come deterrente

Parla il giornalista, blogger e regista di "Io sto con la sposa": “Con il sistema vigente lo status di clandestinità rimane parte integrante del percorso migratorio”. E sull’Europa: “Tutti gli Stati membri devono fare la loro parte”
Richiedenti asilo siriani sul pulman

box LONDRA – Dopo 7 anni, entro la metà del mese, il reato di clandestinità potrebbe essere cancellato dall’ordinamento italiano. Una scelta che, come prevedibile, ha spaccato la politica, a maggior ragione oggi, con l’agenda fitta di impegni – soprattutto europei – legati ai fenomeni migratori. Abbiamo chiesto a Gabriele Del Grande di commentare per noi la situazione attuale. Giornalista e blogger (fondatore di Fortress Europe), Del Grande è anche il regista di "Io sto con la sposa", film-documentario evento del 2014 che racconta la storia di un finto corteo nuziale che parte da Milano e arriva a Stoccolma, sfidando le regole e i controlli della Fortezza Europa, per permettere a cinque ragazzi in fuga da un Paese in guerra di avere un futuro migliore. 

Partiamo dall’abrogazione del reato di clandestinità. L'Ncd di Alfano promette battaglia. Qual è la sua posizione?
Il reato di clandestinità fu introdotto nel 2009 per propaganda e chi oggi promette battaglia lo fa per lo stesso fine: costruire consenso elettorale sulla caccia alle streghe. Dati alla mano invece, possiamo dire che il reato di clandestinità è stato un fiasco totale: non solo dal punto di vista giuridico, ma persino in chiave repressiva. E se le procure stesse sono d'accordo con la sua abrogazione non è per i richiami dell'Europa contro la norma, ma perché 7 anni di reato di clandestinità non hanno aumentato il numero delle espulsioni né agito da deterrente. Il problema è che con il sistema vigente lo status di clandestinità rimane parte integrante – direi quasi una tappa obbligata – del percorso migratorio della maggior parte dei lavoratori non comunitari nel nostro paese. Allora, anziché fare le barricate sul niente, il parlamento dovrebbe approvare modifiche pragmatiche sulla flessibilità in ingresso – visti di ricerca lavoro convertibili in permessi di soggiorno, corridoi umanitari, ricongiungimenti familiari, investimenti sulla mobilità degli studenti, sul turismo dai paesi emergenti – e in uscita – prolungando la durata dei permessi di soggiorno anche in caso di perdita del lavoro. 

La Svezia ha deciso di prolungare i controlli alle frontiere, la Slovacchia medita su limiti all’ingresso dei musulmani. Quali saranno le conseguenze di queste scelte?Sono due casi molto diversi. La Slovacchia, insieme con la Polonia, l'Ungheria e il blocco Baltico dei nuovi Stati membri, esprimono posizioni razziste e islamofobe raccapriccianti. Non solo: dimenticano di aver ricevuto tantissimo dall'ingresso nell'Unione Europea e dimenticano che in un processo politico non c'è soltanto l'avere ma anche il dare. È arrivato il tempo di condividere le responsabilità dell'accoglienza. C'è una guerra atroce di là dal mare, in Siria e in Iraq, e per colpa degli egoismi dei singoli Stati un continente ricco come l'Europa non è in grado di accogliere la metà dei 2 milioni e mezzo di siriani che ospita attualmente la Turchia. È per colpa di questi Stati se un Paese generosissimo come la Svezia va in crisi. La Svezia, nonostante una popolazione di soli 9 milioni di abitanti, ha accolto oltre 150 mila persone lo scorso anno, in continuità con uno sforzo straordinario di accoglienza che dura da almeno vent'anni. Quando Stoccolma reintroduce i controlli in frontiera non lo fa con lo spirito xenofobo dell'Ungheria per intenderci. Lo fa, credo, per mandare un messaggio all'Unione: siamo 28 Stati membri, non è possibile che di tutta la questione si facciano carico Svezia, Germania e Italia. Anche qui però la soluzione deve essere politica, sia nell'emergenza, con lo stralcio del Regolamento Dublino e l’istituzione di un asilo europeo, sia nel lungo termine con uno slancio vigoroso ai negoziati per la pace in Siria. 

Mentre è di pochi giorni fa la notizia che l’Italia starebbe pensando di reintrodurre i controlli con la Slovenia
Sarebbe una follia e darebbe adito all'Austria a chiudere il Brennero e alla Francia a chiudere Ventimiglia. Se ogni Stato membro si circonda di steccati non arriveremo mai ad una soluzione politica comune. Non solo: chi è in viaggio continuerà a passare, ma anziché farlo a piedi o in treno lo farà pagando le mafie del contrabbando. Dobbiamo metterci in testa che occorre una soluzione politica europea, dove ognuno si faccia carico della propria responsabilità. Esattamente come stanno facendo la Svezia, la Germania e anche l'Italia. Un milione di persone sembrano tante, ma sono solo lo 0,3 per cento della popolazione europea: un dato quasi trascurabile dal punto di vista statistico, specie considerato che la maggior parte conta di rientrare in Siria appena finirà la guerra. 

La Germania pochi mesi fa parlò di "fallimento dell’Unione" nella protezione delle frontiere. Intanto ci si interroga su Schengen...
La Germania si riferiva e si riferisce tutt'ora all'incapacità, in particolare della Grecia, di controllare la frontiera europea con la Turchia. Una critica che però non tiene conto della realtà. Siamo di fronte a una delle guerre più drammatiche dell'ultimo secolo nel Medio Oriente: 300 mila morti, un milione di feriti, 12milioni di rifugiati e sfollati. Possiamo pretendere che i siriani rimangano a casa loro? Possiamo pretendere che non prendano il mare dopo che abbiamo chiuso tutti, tutti i canali legali nelle nostre ambasciate? La guerra è un evento fuori dall'ordinario a cui servono risposte fuori dall'ordinario. Se l'Europa davvero volesse salvaguardare Schengen e le sue frontiere esterne dovrebbe fare due cose: rilasciare visti umanitari a tutti i siriani che ne facciano richiesta presso le ambasciate Ue e fare pressioni per un negoziato tra le parti in guerra. Purtroppo però l'Europa non ha nessun ruolo nel negoziato: nessuno. La partita è tutta tra sauditi e iraniani, russi e americani. Il che fa anche capire perché non si arrivi a nessun accordo. 

Di fronte a questa situazione da dove possiamo ripartire?
Dal racconto della guerra in Siria, in Libia, in Iraq, nel Kurdistan turco, in Yemen, perché lì nasce l'Isis e da lì partono le colonne dei profughi. Capiremmo allora che le genti di quei Paesi sono le prime vittime del terrorismo e i nostri naturali alleati. E saremmo orgogliosi di ospitarli e di lavorare insieme per la pace, perché lo concepiremmo come un atto di civiltà contro la barbarie che miete vittime su entrambe le rive di questo Mediterraneo. E se tra un milione di nuovi arrivati scoprissimo che 31 o anche cento o anche mille fossero dei poco di buono, lasceremmo ai tribunali il loro lavoro e continueremmo a gridare convinti ai nostri politici: fermate le guerre e non le persone. (Ambra Notari)

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