11 settembre 2013 ore: 12:29
Non profit

Il dolore del Darfur nella testimonianza di Adam davanti al pontefice

Il 33enne sudanese è ancora emozionato nel ricordare il suo incontro di ieri con papa Francesco nella Chiesa del Gesù. “Il viaggio che noi affrontiamo per chiedere asilo in Europa è un crimine contro l’umanità”
Centro Astalli/Alessia Giuliani Papa Francesco al Centro Astalli. Con i rifugiati in cerchio

ROMA - “Il papa mi ha ascoltato proprio bene e con attenzione”: Adam è ancora emozionato e contento del suo incontro con Francesco. Sudanese del Darfur, 33 anni, ha raccontato la sua esperienza di rifugiato ieri pomeriggio nella Chiesa del Gesù, gremita da richiedenti asilo e rifugiati, operatori e volontari del Centro Astalli radunati per accogliere quel pontefice argentino venuto “quasi dalla fine del mondo”. Una persona che “sa meglio di tutti noi quali e quante sono le guerre nel mondo, e per questo sono certo che capirà il peso che noi rifugiati ci portiamo sulle spalle”, ha commentato il giovane sudanese sopravvissuto alla guerra civile e arrivato nel nostro Paese via mare. Che ha denunciato con forza il traffico degli esseri umani: “Il viaggio che noi affrontiamo per chiedere asilo in Europa è un crimine contro l’umanità. Eravamo in 170 sulla barca che dalla Libia ci ha portato in Italia. Ognuno di noi ha pagato 1.200 dollari per affrontare il mare. Molti di noi hanno pagato il biglietto per incontrare la morte. Santità la sua voce è forte. Tutti l’ascoltano. Ci aiuti. Faccia fermare questo massacro. Chiedere asilo non può essere un tragico modo di perdere la vita”.

Adam ha ripercorso con dolore il suo passato: “Tutto è cominciato quando dei militari hanno dato fuoco al mio villaggio nel Darfur. Le mie due sorelle più piccole di 4 e 6 anni sono morte tra le fiamme - ha raccontato Adam -. Io sono stato costretto ad arruolarmi con i ribelli, mio fratello con l’esercito governativo. Due mesi dopo l’incendio mi trovavo in mezzo ad un conflitto con un fucile in mano. Stavamo combattendo contro quelli che mi avevano ordinato di considerare nemici. Mai avrei pensato che quel giorno il nemico sarebbe stato mio fratello maggiore. Siamo rimasti paralizzati a fissarci negli occhi. Uno di fronte all’altro. Non ci siamo detti nulla. Ho lanciato per terra il fucile e ho cominciato a correre, a scappare. La mia fuga è finita in Italia”.

Il giovane rifugiato si ritiene testimone “dei tanti che muoiono in guerra, che vengono uccisi da terribili dittature. La cosa più difficile per chi come me è rifugiato in Italia è far conoscere il dramma che vivono i nostri popoli. Non possiamo permetterci di cedere al dolore, di chiuderci in noi stessi, di considerarci vittime di un’ingiustizia.` Se facciamo così, offendiamo la memoria di chi non ce l’ha fatta. Noi rifugiati abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in Italia. E’` difficile, ma non possiamo non provarci”.

Perché la vita in Italia non è facile: “Un letto, un pasto caldo, un luogo da chiamare casa e in cui riprendersi dalle fatiche del viaggio e dagli orrori della guerra per tanti di noi non c’è. E anche se così l’integrazione diventa un sogno più che un progetto noi non dobbiamo arrenderci. Io sono stato fortunato, sono stato aiutato dagli amici del Centro Astalli. Loro sono la mia casa, la mia seconda famiglia”. (lab)

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